Tamberi si confessa: "Rinato grazie alla gente"

Intervista esclusiva alla stella dell'alto: "Dopo l'infortunio mi ha dato più affetto che se avessi vinto un oro. Il difficile è stato battere la paura. Paltrinieri? In apnea lo batto"
Tamberi si confessa: "Rinato grazie alla gente"© EPA
di Francesco Volpe
11 min

Ti colleghi con il suo account Whatsapp e la foto del profilo cos’è? Lui in maglia azzurra? La pedana di uno stadio? L’asticella dei desideri? Macché: c’è lui sorridente con la palla in mano su un campo da basket, la barba rigorosamente intonsa. Solo lo slogan (“Fly or Die”, vola o muori) ti ricorda che siamo a... casa del campione del mondo indoor del salto in alto. Fatevene una ragione: “Gimbo” Tamberi è un cestista prestato all’atletica. Non ci sono solo le foto e i trascorsi a testimoniarlo. E neppure il discusso test del settembre scorso con Siena. Prima di Natale, il “nostro” ha infatti vinto una delle due tappe marchigiane della Winter League di Streetball (il 3x3). «La squadra si chiama Silverback Streetball, dal nome del torneo che organizzo assieme a mio cugino Leonardo ad Ancona. Ero con due dei miei cuginetti. Ci siamo pure qualificati per le finali nazionali di Milano, ma per giocarle avrei dovuto saltare il raduno in Sudafrica...». Vabbè, non esageriamo. E’ lì, a Potchefstroom, sul Veld sudafricano, che lo raggiungiamo al telefono.
Ciao Gimbo, cosa hai chiesto a Babbo Natale per il 2018?
«Niente. Non è il momento di chiedere, ma di fare»
Riparti dal Sudafrica: perché?
«Buon clima e strutture: qui c’è tutto. Campo in erba, anello in erba, riesci a fare il doppio del lavoro con la metà dei problemi. Quando sei in raduno, ti concentri al 100% sul lavoro. Sì, abbiamo fatto un safari, ma a 20 minuti di strada».
Come va la caviglia operata?
«Sta reagendo bene, anche se ogni tanto, negli allenamenti più lunghi, dà un po’ più di fastidio. Sono rimasto un po’ indietro sulla tecnica, per concentrarmi sulla parte fisica. Voglio tornare un atleta normale. Guardo al futuro, non alle indoor (debutterà il 27 gennaio a Hustopece, in Rep. Ceca; ndr)».
La giornata come trascorre?
«Allenamento dalle 15.30 alle 19, poi un’ora di stretching e ghiaccio, quindi fisioterapia e riposo. Il lavoro è controllato, l’obiettivo è non stancarsi troppo. Papà (Marco, il suo coach; ndr) dice di non andare oltre, ma lo faccio sempre. Trovo gusto nell’allenarmi. Dopo un anno di elastici, mi entusiasma poter fare pliometria, velocità. Nel tempo libero si gioca un po’ a carte. Tressette. Mentre parliamo sto per vincere una partita a mani basse...».
Chi lavora con te?
«Oltre ad Alessia Trost e Silvano Chesani, qui a Potchefstroom ci sono papà e il fisio Antonio Abbruzzese… A casa ho un mental coach: Luciano Sabatini. Con lui l’anno scorso ho fatto un grande lavoro per riprendere confidenza. La paura di staccare è stata l’ultima a morire. Ora ho fiducia, sto lavorando bene, salto bene, ho le risposte che avevo prima. Guardo a quest’estate, poi ai Mondiali del 2019 e soprattutto all’Olimpiade di Tokyo. Sembra un programma studiato a pennello. Spero di tornare, non dico il n.1 al mondo, ma a dar fastidio a quelli forti forti. Prima però è importante tornare a saltare in un certo modo, ricostruire il gesto com’era. Guai a forzare: se vai di fretta, prendi difetti difficili da correggere e rischi di farti male».
Cos’è per te la vittoria: l’Inno, l’oro, il boato della gente?
«E’ la soddisfazione che ho provato saltando 2,36 ai Mondiali indoor di Portland mentre stavo facendo una gara scandalosa. Ero il favorito, ma non ero tanto in forma. Aver battuto me stesso e il nervosismo pre-gara, che mi stava divorando, e farlo con la maglia azzurra, è stata la cosa più bella del mondo. La vittoria è superare se stessi».
E la sconfitta?
«Va molto più studiata. Da lì impari a tornare a vincere. Dopo Portland, non parlai con il mental coach del salto vincente, quello l’avevo fatto, bensì del perché le cose non stavano andando bene. Quando perdi, devi analizzare il motivo del fallimento. Se ti rifugi nelle scuse non avrai la voglia di riscatto che serve a ripartire».
La pressione è la prima avversaria?
«Prima di un Europeo o un Mondiale è qualcosa di enorme. Alla mia prima volta da capitano dissi alle matricole: “Non pensiate di andare lì e spaccare tutto. Sarà molto diverso, ve la farete addosso”. Con la maglia azzurra, poi. Bisogna rispettare la paura. Come in guerra? Il paragone ci può stare. Non è questione di non aver paura, ma di gestirla. Quando lo confessi a te stesso “Ho paura”, trovi la forza di affrontarla e vai oltre».
Barshim ha detto che non vede l’ora di sfidarti: sarà lui contro di te?
«Lui è il più grande talento mai nato. Gran persona, grande amico, sono contento di ritrovarlo. Sono nettamente inferiore a livello fisico, ma ho un un pelo di cattiveria agonistica in più. Sulla carta lui è più forte, però io a perdere non ci sto. Attenti al russo Lisenko: a 20 anni ha saltato 2.38. Non ha gran tecnica, ma vola. Credo meno in Bondarenko, che sta insieme con lo scotch, mentre Drouin, il campione olimpico, è un punto interrogativo dopo un problema al tendine d’Achille».
Perché da 25 anni nessuno cancella Sotomayor: siamo ai limiti dell’uomo?
«No, Barshim nel 2014 poteva batterlo. Il baricentro in alcuni salti era oltre i 2.50. Doveva farlo, ma gli è mancata la cattiveria agonistica. Poi qualche acciacco ha fatto il resto. Non so se tornerà a quei livelli. Eppoi quelli di Sotomayor quelli erano altri tempi… Barshim è il più forte di sempre».
Che impressione ti sei fatto dell’Athletic Elite Club varato dalla Fidal?
«Mi convince l’approccio del presidente Giomi: dar fiducia alle persone che possano arrivare a Tokyo avendo qualcosa da dire. A me ha concesso carta bianca: “Se non abbiamo risorse, le tiriamo fuori”».
Pesa il fatto di essere l’unica carta da medaglia dell’Italia in pista e pedana?
« E’ uno stimolo enorme, qualcosa che mi spinge a dare di più. Sento l’aspettativa delle persone. Ho sempre detto: tornerò più forte di prima. La gente se l’aspetta. Con i tempi giusti, prometto che la mia sarà solo una scalata verso l’alto. Me lo dicono il lavoro che sto facendo e la grinta che ci sto mettendo. A Montecarlo valevo più di quello che ho fatto quel giorno (2.39; ndr). Nell’alto l’età ideale è tra i 26 e i 28 anni. Ed io i 28 li avrò a Tokyo…».
La Russia resta fuori: è giusto?
«Se c’è qualche giovane estraneo a quel sistema marcio, è giusto che gareggi. Alla Kuchina, strafavorita, hanno tolto ingiustamente il sogno dell’Olimpiade. So quanto aveva lavorato per arrivare sin lì e so quanto ha sofferto. Rosico pensando che c’è chi viaggia in motorino mentre io vado a piedi, però chi è pulito merita di gareggiare».
Come sarà l’atletica dopo Bolt?
«Un altro che stia davanti alle telecamere come lui e che vinca quanto ha vinto lui non esiste. Perché Bolt prima vinceva e poi ballava, e nella disciplina più importante dell’atletica. Ho visto stadi riempirsi o svuotarsi prima e dopo una sua gara».
Ti convincono gli eventi in piazza, tipo Fly Europe?
«E’ l’unica soluzione, andava presa anni fa. Forse è già troppo tardi. L’atletica in Tv è noiosa, troppe gare insieme, anche la mia ragazza, Chiara, fa fatica a seguirla. Giusto cercare di restituirle charme, in piazza, con la musica. Come lo streetball per il basket, che ora andrà ai Giochi. Sono assolutamente favorevole».
Sei molto social: hai avuto più seguito per le tue vittorie o per il tuo infortunio?
«Non c’è paragone: molto di più per gli infortuni. Tante persone, vedendo il video dell’infortunio, hanno provato empatia per me. Hanno letto sul mio viso quello che provavo in quel momento. All’ultima gara prima dei Giochi dove sarei andato da favorito. Erano anni che avevo quel sogno in testa ed erano mesi che non pensavo ad altro. Si sono immedesimati. Tantissime persone mi hanno sostenuto, mi hanno dato la forza di crederci. Ma non solo sui social, anche con abbracci, pacche sulle spalle, sguardi. Per tutta la riabilitazione mi sono sentito come un bambino cullato dalla mamma».
Eppoi c’è Chiara...
«E’ stata fondamentale per il mio recupero, non mi ha abbandonato un secondo. Siamo fidanzati da otto anni e mezzo, da quando avevo appena cominciato a fare atletica».
Nella NBA, la “tua” Houston è 27-10: in linea con le attese?
«Mi hanno strasorpreso all’inizio, non riuscivano a perdere neanche senza Chris Paul. Adesso, assente Harden, soffrono e soffriranno, ma il nuovo innesto Gerald Green va forte. Purtroppo stanno a Ovest, dove ci sono tutte le big. Però è un anno buono, Harden è sempre più forte. Ci credo molto. Magari non alla finale per l’anello, ma…»
Sarà ancora Lebron vs Curry?
«Sì. Lebron è il giocatore più devastante della storia del basket: 2.06 per 120 kg, ma si muove come un play e schiaccia come uno di 2.20. Tifo Lebron perché non mi è piaciuta la mossa di Durant di andare ai Warriors per creare un superteam imbattibile».
Elia Viviani apprezza la linea Coni di far incontrare gli atleti top: tu con chi hai legato?

«Greg Paltrinieri. Da quando ci siamo scritti è come se ci conoscessimo da vent’anni. Siamo stati anche in vacanza con le ragazze a New York. Stesse passioni, stessi obiettivi. Anche lui è un patito del basket. L’ho sfidato un anno fa, durante la mia riabilitazione a Pavia, a fare due vasche da 25 metri in apnea e non c’è mai riuscito. Però in piscina lui è un motoscafo e io un canotto. Ora devo testarlo nell’alto. Poi ho trovato tanti altri amici: li conosci, scopri che sono simili a te, che fanno le stesse cose e provano le stesse sensazioni».
Il più bel ricordo sportivo del 2017?
«Non il più bello, ma il più emozionante: il ritiro di Kobe Bryant. Stavo per piangere»
La delusione sportiva del 2017?
«La Nazionale di calcio fuori dai Mondiali. Roba grossa. Dieci anni fa dominavamo il mondo. Non credo che il problema possano essere i giocatori. Non sono appassionato di calcio, però la Nazionale la seguo».
Che faresti da presidente del Coni?
«Direi agli altri atleti di emigrare all’estero: sarebbe un problema per lo sport italiano. Scherzi a parte: Malagò sta facendo ottimo lavoro. Ho grande rispetto e fiducia in lui. Con me ha dimostrato un’umanità incredibile durante e dopo l’infortunio. Eppoi ci sta dando dentro, tiene in considerazione tutti gli sport. Lui è uno che fa e giustamente ogni tanto viene criticato. Sai cos’ho scoperto quando ho fatto quella breve esperienza con Siena nel basket, a settembre?»
Prego.
«Se avessi deciso di continuare a giocare, non mi avrebbero potuto tesserare da italiano perché non ho fatto quattro stagioni a livello juniores. Io che sono italiano e ho giocato dai 4 ai 17 sarei stato considerato uno straniero… C’è tanto da cambiare».
Trovi una lampada ed esprimi un desiderio
«Farei sparire il terrorismo, tornando a dieci anni fa. Non è che ho paura, sono fatalista, ma vedo tanta insicurezza. E non è giusto che le persone vivano spaventate».
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