L’affaire nigerino

(di Paolo Palumbo)
25/10/17

Giovedì 5 ottobre 2017 la CNN riportava una notizia scioccante: tre Berretti Verdi erano rimasti uccisi in un’azione al confine tra il Niger e il Mali, mentre altri due erano gravemente feriti e già evacuati presso il Centro Medico regionale di Landshut in Germania. Il conflitto a fuoco era avvenuto in una delle zone più delicate del continente africano, territorio di caccia di numerosi gruppi jihadisti, primo fra tutti Boko Haram che da tempo imitava le ambizioni di conquista dello Stato Islamico. Sempre in accordo con i rapporti ufficiali, 50 guerriglieri islamisti avevano aggredito la pattuglia americana di supporto ad un gruppo di militari nigerini. I fatti hanno fatto strabuzzare gli occhi a molti statunitensi per i quali il Niger è solo una macchia insignificante nella geografia globale dei Paesi del Terzo Mondo e mai si sarebbero aspettati la perdita di vite americane in quel remoto angolo della Terra. Non tutti però sapevano che le operazioni militari dell’U.S. Army in Africa perduravano dal 2005 e hanno goduto del beneplacito di tre presidenti (George W. Bush, Barak Obama e Donald Trump) i quali non si sono mai preoccupati di ottenere l’assenso ufficiale del Congresso.

L’amministrazione Bush diede inizio alla partecipazione militare che toccò l’apice durante il mandato del democratico Obama il quale intensificò l’uso dei droni per scovare i terroristi. Oggi, il presidente Trump inciampa inevitabilmente su questioni create dai sui predecessori, sebbene l’atteggiamento della Casa Bianca sia lontano dal voler chiarire all’opinione pubblica il vero ruolo delle truppe americane in Africa. Trump, contrariamente a Bush e Obama, dimostra un certo imbarazzo, soprattutto nel confronto diretto con la stampa obbligando l’establishment militare del Pentagono, a funambolici rapporti per nascondere la verità e biasimare le Forze Speciali.

Lo scenario africano

Chad, Niger e Mali: questi sono i tre Stati che occupano un ruolo strategico fondamentale per i movimenti jihadisti africani; essi sono, infatti, un punto di passaggio e scambio indispensabile sulla direttrice nord–sud in collegamento con la Libia. Il Niger è inoltre un’area appetibile per la presenza delle miniere d’oro, il cui controllo servirebbe a finanziare il terrorismo. In questa ampia fascia territoriale, morfologicamente molto arida e inospitale, oltre Boko Haram opera AQIM (Al-Qaeda in Islamic Maghreb), insieme ad altre piccole organizzazioni spesso in concorrenza tra di loro.

All’inizio del 2014 la Francia avviò l’operazione Barkhane concentrando le sue truppe nel settore dello Sahel e poi l'operazione Chammal, contributo sostanzioso agli sforzi internazionali contro il terrorismo espressi da Inherent Resolve in Iraq e Siria. In questo contesto i francesi contavano comunque sull’appoggio americano dell’U.S. Africa Command che garantiva agli alleati transalpini un apporto sostanziale nel comparto ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaisance) ed un circoscritto dispiegamento di unità speciali per l’addestramento delle truppe indigene.

La posizione della Casa Bianca sugli aiuti militari ai Paesi africani è sempre stata al centro di un dibattito molto acceso a causa del cosiddetto “Emendamento Leahy”, secondo il quale è proibita ogni forma di sostegno agli Stati che si siano macchiati di crimini di guerra. Un caso emblematico dell’atteggiamento americano rispetto la lotta al terrorismo nel continente Africano è quanto accaduto per la Nigeria, nazione limitrofa al Niger.

Nel 2015, l’allora presidente Barak Obama accolse il neoeletto Muhammadu Buhari, l’uomo della speranza il cui compito principale era ripulire la Nigeria dalla dilagante corruzione. In quell’occasione il leader nigeriano puntò il dito sull’emendamento Leahy poiché la sua rigida applicazione privava il suo Paese di strumenti efficaci contro Boko Haram. Il presidente africano respinse ogni accusa di crimini di guerra, rimarcando come l’esercito nigeriano non avrebbe mai potuto affrontare ad armi pari gli jihadisti senza un congruo supporto statunitense. Nonostante buona parte dei media faceva notare come le presunte accuse mosse dalla comunità internazionale fossero tutt’altro che illazioni, il presidente Obama decise di dimenticare le colpe della Nigeria e – con spudorato opportunismo – di avviare un nuovo rapporto politico/militare concretatosi con il semplice invio di qualche mezzo blindato, senza però un vero e proprio progetto di addestramento.

Senza dubbio, l’eccezione “nigeriana” al principio dell’emendamento Leahy segnò un passo importante per la politica della Casa Bianca in Africa, indotta così a potenziare la presenza dei soldati americani ed in particolare delle Forze Speciali. Proprio a gennaio di quest’anno il Niger, il Burkina Faso e il Mali hanno sottoscritto un patto per la creazione di una forza di sicurezza antiterrorismo denominata Liptako-Gourma Multinational Security Force con lo scopo di contrastare il pericoloso transito di jihadisti nelle zone di confine. Ovviamente gli africani non possedendo il know-how per allestire un simile organismo devono appoggiarsi soprattutto sull’apporto internazionale.

Le Special Forces in Africa

Secondo il noto sito militare americano SOFREP, dedicato alle operazioni speciali, i tre Green Berets caduti nell’imboscata, nella regione di Tongo Tongo a 130 miglia dalla capitale nigerina Niamey, facevano parte della ODA 3212 (Operational Detachment Alpha) impegnata in una Direct Action contro i terroristi del gruppo emergente ISIS GS (ISIS Greater Sahara). Tutti i soldati appartenevano al 3° Special Forces Group di stanza in Niger con una rotazione variabile dai 5 ai 6 mesi. SOFREP ha inoltre sottolineato che la presenza americana nel continente africano non sia assolutamente un segreto poiché inclusa nel programma JCET – Joint Combined Exchange Training. I compiti delle ODA (distaccamenti composti da 12 uomini) sono quelli di formare le unità antiterrorismo nigerine (BSI), ma soprattutto qualificare i soldati locali nel disinnesco degli IED. I rapporti tra le diverse unità sono ottimi: i soldati americani nutrono grande stima per la loro controparte nigerina, sebbene abbiano molte difficoltà a raffrontarsi con la catena di comando del SOC-Africa. In base ad alcune testimonianze raccolte da ex, le SF hanno espresso malcontento su come il generale Buldoc gestisce il comando, giudicandolo troppo timido e pieno di preconcetti rispetto la complessità del mondo africano.

Il giorno dell’imboscata l’ODA 3212 – sempre secondo notizie provenienti dagli americani – era in viaggio per una missione congiunta con i soldati nigerini verso il villaggio di Tongo Tongo per capire se alcuni anziani fossero o meno collusi con elementi ostili dell’ISIS GS. Mentre i nigerini convenivano fra loro, l’ODA Team garantiva la sicurezza del convoglio quando, all'improvviso, furono investiti da un violento fuoco di armi automatiche. Una parte di soldati locali rimase isolato, mentre i sergenti Bryan Black, Dustin Wright e Jeremiah Johnson caddero, colpiti mortalmente dalle raffiche avversarie. Il restante dell’ODA Team, tagliato fuori dal raggio di fuoco nemico, tentò una manovra accerchiante, senza successo; nel frattempo anche il comandante dell’ODA, capitano Michael Perezoni e il soldato Brent Bartels rimasero inattivi perché feriti in combattimento. Il tanto bramato supporto aereo invocato via radio dai Berretti Verdi era realmente in rotta verso il luogo dell’attacco – i francesi avevano ordinato il decollo di due Mirage 2000 – ciò nondimeno i caccia transalpini non avevano l’autorizzazione a fare fuoco dal momento che il governo nigerino aveva precluso qualsiasi bombardamento aereo entro i suoi confini. Stando a quanto dichiarato in un primo momento dalle autorità militari americane, l’evacuazione dei feriti sarebbe stata condotta da elicotteri francesi Super PUMA, decollati dalle vicine basi delle forze speciali. Alcuni giorni dopo la versione ufficiale ha subito una smentita, poiché è emerso che il trasporto del personale americano e nigerino sia stato effettuato da una compagnia aerea privata di contractor, la Barry Aviation. Entrambi le ipotesi sembrerebbero comunque veritiere poiché sia l’Armée de l’Air, sia i contractor avrebbero contribuito in egual misura allo sgombero del luogo dell’attentato. Alla conta finale delle vittime e dei feriti, mancava all’appello un altro soldato americano, l’autista meccanico La David Johnson, subito dichiarato Missing in Action oltre le linee nemiche.

Quando accade una cosa del genere, a Fort Bragg squilla il telefono rosso che mette in allerta un battaglione di Ranger e uno squadrone della Delta Force, pronti H24 ad intervenire per recuperare o liberare gli eventuali dispersi. Non appena la notizia della scomparsa di La David raggiunse i quartieri di Bragg, un distaccamento della Delta decollò alla volta del Niger con l’appoggio aereo del 160° SOAR (Special Operations Aviation Regiment) al quale fu affidato di compiere un’accurata ricognizione fotografica per trovare eventuali tracce del militare disperso. A questo punto – come racconta Jack Murphy, editore di SOFREP – alcuni sostennero di aver visto delle luci di segnalazione attive, mentre altri confermarono la presenza di qualcuno che poteva essere La David. Non appena stabilito il contatto visivo, la Delta richiese il permesso di atterrare, subito negato dal comando poiché il bagliore della luna piena rendeva troppo rischiosa la presenza degli elicotteri. I resti del meccanico americano furono rinvenuti due giorni dopo l’attentato e il team della Delta fu fatto rientrare a Fort Bragg.

Una brutta figura

Dopo la morte dei quattro operatori americani, il Pentagono ha redatto un frettoloso rapporto nel quale prendeva la distanze dall’intera vicenda, sbalordendo le Forze Speciali, purtroppo abituate a repentini voltafaccia per coprire giochi politici. Alcuni hanno subito paragonato – forse in modo inappropriato – il comportamento delle autorità americane a quanto accaduto a Bengasi, dove altri operatori furono lasciati al loro destino nel totale disinteresse di Hillary Clinton e della Casa Bianca. L’opinione pubblica, già in fermento contro il presidente Trump, ha espresso sconcerto per la perdita di vite americane in un territorio sconosciuto e periferico in raffronto al cuore pulsante della lotta al terrorismo combattuta in Iraq, Siria o Afghanistan. L’atteggiamento ambiguo di Washington ha poi complicato ulteriormente le cose, rimediando una brutta figura persino con il Niger il cui presidente, Mahamoud Issoufou ha espresso, senza equivoci, il suo vivo cordoglio per la perdita sia dei soldati nigerini, sia per quelli americani, definendoli eroi.

I dubbi espressi riguardo la presenza delle forze speciali americane in quella zona sono avallati dal fatto che la ricerca di informazioni a quel livello (interazione diretta con i locali) poteva essere organizzata in altro modo, oppure affidata ai soldati francesi, sicuramente più avvezzi all’ambiente. L’altro punto oscuro sul quale si stanno concentrando le indagini è come il soldato La David Johnson sia rimasto isolato per poi essere ritrovato morto dopo due lunghi giorni. Se prendiamo per buone le dichiarazione di SOFREP, quando la Delta Force sorvolò l’area, avrebbe captato un segnale e ciò comproverebbe che immediatamente dopo l’imboscata, Johnson fosse ancora vivo. In quali misteriose circostanze sarebbe dunque morto il soldato americano?

Un interessante articolo di Barbara Starr e Zacary Cohen, apparso su CNN Politics (v. articolo del 20/10/2017) svela ulteriori ombre sull’accaduto, interrogandosi sull’inspiegabile ritardo con il quale il presidente Trump abbia dato notizia dei morti americani. Tra le ipotesi più plausibili c’era quella che vedeva il presidente Trump in forte difficoltà su come chiarire al popolo americano la presenza di Forze Speciali in Niger. Inoltre, dichiarando che gli autori dell’imboscata fossero miliziani dello Stato Islamico, temeva di rafforzare l’idea che, sebbene l’ISIS fosse prossimo al collasso con la perdita di Raqqa, stesse comunque prendendo potere in altre parti del globo.

Se è vero che a pensar male in molti casi si ha ragione, allora si potrebbe anche ipotizzare come i terroristi non fossero veramente terroristi, ma piuttosto semplici villagers chiamati ad una reazione armata per non si sa quale motivo. Fonti non confermate, ma che per dovere di cronaca dobbiamo riportare, parlano di forti interessi economici collegati alla presenza di miniere d’oro proprio nell’aerea di Tongo Tongo e che questi impianti minerari siano di proprietà degli Stati Uniti. Confidiamo sull’imparzialità delle indagini in corso, non tanto per salvaguardare la dignità della Casa Bianca – oramai già compromessa – quanto per proteggere il sacrifico dei militari nigerini e americani.

(foto: CNN / U.S. DoD / web / U.S. Army)