La sinistra divisa
Il conflitto di Grasso

Ora che a furor di popolo è stato investito candidato premier e (quasi) capo di un partito, il presidente del Senato Piero Grasso dovrà impiegare il doppio della fatica per dimostrare la propria imparzialità. Tanto cosciente del conflitto di interessi in cui si è messo da tacerne rigorosamente con chiunque, Grasso sa che non solo deve affrontare i sospetti e le critiche del Pd che da lui si sente danneggiato (ieri il tesoriere democratico gli ha bruscamente chiesto di saldare l’insoluto dei contributi al partito, più di ottantamila euro) ma anche che deve garantire al Quirinale circa la propria correttezza istituzionale.

Per questa ragione, attraverso una testata amica, da Palazzo Madama è stato fatto filtrare che il presidente del Senato oggi, alla riunione dei capigruppo, non forzerà la mano per cercare, nelle ultime settimane utili di lavoro, di anteporre il voto sullo ius soli a quello riguardante il biotestamento: se lo facesse, come sospettano i dem, rischierebbe di provocare un fatale capitombolo del governo che sullo ius soli non ha la maggioranza. Un Gentiloni in crisi è esattamente il contrario di quel che Mattarella ha in mente: il capo dello Stato vuole tenere il governo nel pieno delle sue funzioni anche nel passaggio elettorale, per garantire la continuità sin dall’inizio della prossima legislatura nel caso in cui – assai probabile – dalle urne non venga fuori una maggioranza e ci si debba attrezzare a lunghe settimane di trattative e incertezze.

Insomma, adesso Grasso è un vigilato speciale nel suo ruolo di seconda carica dello Stato: del resto il suo passo è un unicum assoluto nella storia della Repubblica che non trova paragoni neanche in Giovanni Spadolini che, eletto presidente del Senato, nel 1987 si dimise dalla carica di segretario del Pri. In ogni caso questi sospetti e ripicche ben incorniciano lo stato di tensione assoluta che c’è tra il Pd e la nuova formazione di sinistra nata al Pala Atlantico. Prima l’affondo-sberleffo di Renzi («Grasso? A comandare lì sarà D’Alema, non certo lui. Auguri»), poi il botta e risposta tra due vecchi amici, Roberto Speranza («Faremo concorrenza al Pd collegio per collegio») e Lorenzo Guerini («Questa è la differenza tra noi e loro, il Pd cercherà piuttosto di battere le destre e i populisti»). Al Pd temono che la nuova formazione si porti via il 6-7 per cento dei voti dell’area che fa riferimento sia alla sinistra che al centrosinistra e che riduca la loro capacità di penetrazione elettorale a poco più della metà di quel che Renzi raccolse nelle elezioni europee del 2014. Tanto più grave perché rischia di provocare un’ecatombe di candidati piddini nei collegi maggioritari a tutto vantaggio del centrodestra (a Nord) e del Movimento Cinque Stelle (a Sud), lasciando a Renzi soltanto la roccaforte tosco-umbro-emiliano-marchigiana, ma non con la granitica compattezza di una volta, soprattutto in Toscana.

Se l’incertezza del voto sarà massima, le due sinistre potrebbero rimescolarsi ulteriormente in Parlamento: in caso di governo istituzionale, unica soluzione possibile se il centrodestra non riuscisse a raggiungere il 40 per cento, una parte dei deputati e senatori del Pd, segnatamente quelli della minoranza, potrebbero lasciare il partito che li ha eletti e rifluire tra i «Liberi e Uguali». I due campi avversari sono talmente contigui che non è detto che restino sigillati: molto dipende dalle condizioni che ci saranno. Di certo Piero Grasso non può davvero credere di essere un candidato premier: il suo ruolo – in questo Renzi ha ragione – sarà quello della bandiera dietro alla quale radunare tutti gli anti-renziani, disposti anche a far governare Salvini e Berlusconi pur di vedere rotolare nella cesta la testa dell’«usurpatore» di Rignano sull’Arno.

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