Attualità
1 Ottobre 2017
A Internazionale un incontro per parlare dell’Iraq del dopo Isis

Mosul: la guerra al terrore non è finita

di Redazione | 4 min

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Mosul è riconquistata, la guerra allo Stato di Daesh è finita: questo ci hanno detto a luglio. Ci avevano detto anche che il Califfo Al-Baghdadi era morto, è notizia di questi giorni che potrebbe non essere così.

Cosa sappiamo veramente del conflitto in Iraq? E cosa sappiamo della situazione ora: la guerra è davvero finita? I civili come vivono ora? E come vivevano prima?

Sono alcune delle domande alle quali si è tentato di rispondere durante l’incontro di Internazionale “Mosul, una ferita aperta”, sabato mattina al Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara. Ospiti: Ghaith Abdul-Ahad, giornalista iracheno per “The Guardian”, Caroline Abu-Sada di Medici senza fontiere, e Francesca Mannocchi, giornalista free lance, che ne hanno parlato con Tonia Mastrobuoni de “La Repubblica”.

Prima di iniziare Chiara Burzio, infermiera torinese di Msf, ha dato la propria testimonianza della situazione a Mosul ora e di ciò che l’ong tenta di fare per sopperire alla totale mancanza non tanto di un sistema sanitario, quanto piuttosto di ospedali o presidi sanitari parzialmente operanti, di acqua potabile o di cibo. E già questo la dice lunga sul contesto iracheno ‘liberato’ dall’Isis.

“I più fortunati hanno perso solo la casa”, poi c’è chi ha perso anche “arti, un rene”, tutta la propria famiglia. “Noi di Medici senza frontiere eravamo vicino alla linea del fronte e nel primo mese e mezzo di combattimenti abbiamo curato più di 1.500 feriti gravi, ciò significa che in un’ora potevano arrivarne anche 60, 70 in una volta”, ha raccontato Chiara. Il 50% dei pazienti erano e sono donne e bambini. “Abbiamo aperto reparti di maternità perché, con gli ospedali bombardati non c’erano più posti sicuri dove far nascere i bambini, e cliniche mobili nei campi profughi, perché mancavano per esempio i farmaci per curare anche una semplice polmonite e perché quando si scappa non si pensa a prendere con sé le medicine, come per esempio l’insulina per il diabete”. E poi ancora “centri per la malnutrizione, soprattutto per bambini, e centri di riabilitazione con fisioterapia e sostegno psicologico”. “Le ferite della guerra – ha sottolineato Chiara – non sono solo fisiche, ma anche psicologiche: ci siamo spesso trovati davanti bambini e adulti dagli occhi vuoti, che non sono più capaci nemmeno di piangere”.

La verità è che non sappiamo quanti civili, quanti soldati iracheni, quanti miliziani siano morti e quanti siano stati feriti nella ‘guerra contro il terrore’, e non sappiamo quale sia la situazione dei 4 milioni di sfollati che (soprav)vivono in Iraq, ai quali vanno aggiunti i profughi siriani in territorio iracheno. Per Caroline Abu-Sada, anche lei di Medici senza fontiere, la cosa peggiore è che la guerra globale al terrore ha fatto sì che chi sta in quei luoghi diventasse “colpevole a prescindere”, “colpevole per procura”, è come se nella guerra all’Isis “tutto fosse permesso”. “I bombardamenti sui civili hanno avuto il benestare della coalizione”, sottolinea Abu-Sada. E dato che “chiunque sia rimasto è colpevole” diventa un problema curare le persone: “Noi, i nostri ospedali, stiamo diventando obiettivi legittimi perché si pensa che curando tutti siamo un servizio anche per i combattenti dell’isis”.

Ghaith Abdul-Ahad in questo 2017 è stato a Mosul almeno una volta al mese e l’immagine che ne dà è quella di “un manufatto di argilla stravolto da enormi dita”. Secondo lui la guerra non è finita, “Mosul è la fine di una tappa e presto entreremo nella seconda fase”. I ragazzi che ora stanno combattendo, da una parte e dall’altra, erano solo bambini nel 2003 quando l’Iraq fu invaso dagli Stati Uniti, quello a suo parere è stato “il peccato originale”, e da allora non hanno conosciuto che conflitto e violenze: “Questa guerra continuerà fino a quando questa generazione non deciderà di smettere di combattere”. Quello che servirebbe è “una soluzione politica”, “un nuovo contratto sociale” per mettere fine a quella che è una vera e propria guerra civile.

Tuttavia sia Ghaith Abdul-Ahad sia Francesca Mannocchi sono pessimisti sul futuro. Mannocchi ha raccontato che negli ultimi giorni della riconquista un ufficiale delle forze irachene, di fonte alla telecamera, non in via confidenziale, quando gli ha domandato dei civili ancora a Mosul le ha risposto: “cerchiamo di salvare i bambini perché rimangono comunque figli dell’Iraq, ma chi è rimasto dentro, uomo o donna, per noi è Isis e vanno ammazzati tutti”. “Questo è il cortocircuito che è avvenuto” in chi questa guerra la combatte e in chi la vive. Da una parte “le famiglie di Daesh non sono mai state considerate civili innocenti”, dall’altra “se c’è una cosa che Isis ha saputo fare è crescere una generazione di ragazzini per essere ancora più puri e ideologizzati della generazione che li ha preceduti”. Mannocchi concorda con il collega del Guardian riguardo la mancanza di una soluzione politica in un contesto di ritorsioni, vendette, sospetti, violenze. “Non c’è una scuola, non c’è un progetto di de-ideologizzazione, non c’è un sostegno psicologico”, in particolare per le vedove e i figli dei combattenti dello Stato islamico: “Si lasciano le famiglie dei carnefici a vivere in tende accanto alle famiglie delle vittime. È chiaro che è una bomba a orologeria”, conclude la giornalista italiana.

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