• antologia.jpg
  • Giornata-del-Dialetto-pdf.jpg
  • Macerata-.jpg
  • Altre-lingue-a-Roma-.jpg

Giornata Nazionale del Dialetto – POETI NEODIALETTALI MARCHIGIANI

in Cultura

Giornata Nazionale del Dialetto

Urbino, 8 novembre 2018: viene presentato il libro POETI NEODIALETTALI MARCHIGIANI a cura di Jacopo Curi e Fabio M. Serpilli.

Fabio Maria Serpilli ricorda che la iniziativa ebbe il suggello al ristorante Nenè di Urbino con la squisita ospitalità di Gastone Mosci.

La antologia vince il 38° Premio FRONTINO MONTEFELTRO, un grande riconoscimento, grazie a Gastone Mosci e Jacopo Curi, decisivi collaboratori nella realizzazione di questa bella avventura letteraria.

L’Antologia che raccoglie i contributi di Gianluca D’Annibali, Rosanna Gambarara, Marco Pazzelli, Gabriella Ballarini, Luca Talevi, Francesco Gemini, Manuel Cohen, Diana Brodoloni, e Antonio Maddamma, ha esaurito la prima stampa ed è stata ristampata in sole 150 copie nella collana Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche.

L’Unilit di Urbino sui Poeti neodialettali marchigiani

Il libro sui poeti neodialettali è una novità editoriale marchigiana, promossa dalla Associazione Culturale Versante e dai Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche (a. XXIII n. 263, Ottobre 2018), a cura di Jacopo Curi e Fabio Maria Serpilli. La presentazione del bellissimo volume si svolgerà a Urbino per iniziativa dell’Unilit nella sede del Circolo Acli – Centro Universitario in piazza Rinascimento 7 (Palazzo Petrangolini), mercoledì 7 novembre alle ore 16,30: sarà questa l’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019 dell’Unilit  (con due incontri settimanali fino al maggio prossimo). Si parlerà di 22 poeti, sono pubblicate 24 incisioni di Adriano Calavalle, si affronterà la questione dei neodialettali: poesia e costume, lingua e cultura popolare e problemi della cittadinanza. Per l’appunto, “Non si abita un paese, si abita una lingua”, dice  Emil M. Cioran. (Ga.Mo.)

 

La Poesia Neodialettale

nota del coautore Jacopo Curi

Il concetto di poesia neodialettale nasce con Pasolini e si afferma nel corso del Novecento. Citando il titolo di un importante lavoro di Tesio e Chiesa, il dialetto da lingua della realtà diventa lingua della poesia.
Nelle Marche, sulla linea dei padri neodialettali Leonardo Mancino, Gabriele Ghiandoni, Antonio Fontanoni e del neovolgare Franco Scataglini si sono distinti e si distinguono i 22 autori antologizzati: Piero Saldari, Mariella Collina, Anna Elisa De Gregorio, Rosanna Gambarara, Angelo Ercole, Nadia Mogini, Fabio Maria Serpilli, Massimo Vico, Germana Duca Ruggeri, Gabriella Ballarini, Floriana Alberelli, Diana Brodoloni, Luca Talevi, Massimo Fabrizi, Francesco Gemini, Antonio Maddamma, Marco Pazzelli, Gianluca D’Annibali, Andrea Mazzanti, Michele Bonatti, Jacopo Curi, Ambra Dominici.

 

Adriano Calavalle, l’incisore della “utopia realizzata”

di Gastone Mosci

Le incisioni che corredano il volume “Poeti neodialettali marchigiani” a  cura di Jacopo Curi e Fabio Maria Serpilli (Quaderni del Consiglio regionale delle Marche, a. XXIII, 263, Ottobre 2018, p. 371) sono 24  (1967 – 2010) più l’opera di copertina: “Roccia, mare e vento” (le due sorelle del Conero), 2007, acquaforte e acquatinta, mm. 150X150.

Due immagini guidano il dialogo con Adriano Calavalle (Urbino 1942), incisore, allievo e docente della Scuola del Libro: l’esperienza giovanile è rappresentata dalla sua fotografia della falciatrice,  “L’abbandono” (1968), vista insieme a Gino Girolomoni nelle terre del Monastero di Montebello nelle Cesane; la seconda immagine è legata alla imponente Mostra di Lodi nell’ex-Chiesa di San Cristoforo del marzo 2009, organizzata da Elena Amoriello, con la presentazione di Paolo Bellini, acuto e sensibile storico dell’incisione.

Calavalle, diplomato nella scuola di Francesco Carnevali e di Leonardo Castellani, viene dalla vita rurale nelle colline di San Bernardino a levante  di Urbino, e dalle balze e dai torrenti di Santa Barbara nella parrocchia di Santa Maria in Spinaceto fra Urbania e Fermignano, un ragazzo dallo sguardo attento verso l’orizzonte delle colline urbinati e del Metauro. Questo il profilo di Calavalle giovane che ama l’agricoltura e la natura nel suo manifestarsi, come i suoi amici artisti, Guido Vanni e Pia Zubani, e Girolomoni con il filosofo e biblista Sergio Quinzio: questi nutre la loro        visione agricola e ambientalista, la loro avventura nella vita contadina, la loro tenue utopia, la profezia d’una nuova umanità. Quell’ambiente di Isola del Piano era una cittadella dell’anima dove passavano tanti personaggi, fra i quali, Guido Ceronetti, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Piero Stefani, Claudio Magris, Paolo De Benedetti, Sergio Givone, Aldo Bodrato, Maurizio Ciampa, Gabriella Caramore. Un mondo fra il dissenso e il desiderio di un orizzonte inedito.

Quella foto della falciatrice abbandonata nei campi delle Cesane, proposta  da Franco Porcelli nella copertina del fascicolo n. 100 (a. 27°) di “Sestante” (dicembre 2013) di Senigallia a conclusione di una ricerca sulla emigrazione, denuncia la disfatta dell’agricoltura negli anni sessanta. Calavalle è l’artista che cresce nel contesto sorprendente e magico  promosso  da Girolomoni e da Sergio Quinzio a Isola del Piano, un luogo di studio e di lavoro, dove si  sviluppa l’agricoltura biologica e il progetto di riedificare l’antico monastero e si forma anche lo scrittore Daniele Garota, che continua l’antica avventura culturale insieme ai figli di Girolomoni.

In questo ambiente di primato della natura, delle speranze visibili, del percepire i segni dei tempi si pone la presenza di  Adriano Calavalle nella lettura creativa dello storico Paolo Bellini, in particolare con le riflessioni sul lavoro di incisore, sul fare artistico, soprattutto sulle modulazioni della ricerca sul “rapporto uomo-natura”, il porre su un piano di dialogo la creazione artistica e i diritti dell’intelligenza e dell’umanità dell’operare: ritrovarsi continuamente nella situazione d’accoglienza dei nuovi impulsi delle luci e dei registri delle tecniche calcografiche, che Bellini chiama “utopia realizzata”. Ecco nella rete di un decennio alcune sue incisioni suggestive:   “Dune 2” xilografia (1989),  “Arcobaleno” acquaforte acquatinta e rilievo (1994),  “L’ultima cometa” vernice molle acquatinta (1998), “L’Infinito 2” acquaforte acquatinta a rilievo (2000): sono quelle esposte ma l’insieme, come dice Paolo Bellini, è veramente di grande rilievo calcografico.

“Qui c’è qualcosa di grande. E’ la capacità di un artista di trarsi sempre fuori, di cambiarsi per rimanere fedele a se stesso e al proprio ideale”.

Si tratta di sapienza calcografica proposta da Calavalle: grande conoscenza tecnica, il segno della poesia, un vivo umanesimo. Ed ancora Bellini:

“Qui si tocca con mano la diversità di Calavalle e si comprende come il suo mondo poetico sia tuttora in pieno fermento e stia vivendo una fase di ricca transizione, alla luce di quel detto, sempre nuovo e sempre vero: mutare per rimanere fedeli a quel che si voleva all’inizio”.

Ho raccolto, infine, due lezioni: la giovinezza di Calavalle vive in un ambito di libertà e di spontaneità, è luogo di studio senza limiti, è scelta di un itinerario e di sensibilità spirituale per realizzare l’utopia possibile,  e  essere fedeli a se stessi. Calavalle vive in modo semplice il profilo della testimonianza al ruolo dell’artista, comune a Carlo Bo, Paolo Volponi, don Italo Mancini, ed ai suoi maestri della Scuola del Libro, Renato  Bruscaglia, Carlo Ceci, Pietro Sanchini. E’ uno che come loro ha saputo comunicare l’entusiasmo e la felicità dell’incidere.

Settembre 2018

 

Il segno di Adriano Calavalle, sintesi di memoria e vita / La stampa comedono

Come nei dipinti e nelle incisioni di Federico Barocci le vedute di Urbino attestano l’identità dell’artista, così nelle incisioni d’occasione di Adriano Calavalle ritorna sovente Urbino nelle classiche vedute e in quelle più inedite per dare forza a quel luogo dove l’evento eccezionale si è compiuto. L’identità del luogo contribuisce a rendere credibile che con il matrimonio si ha dato inizio a un progetto, con il battesimo a una nuova vita, con la cresima a un passaggio. Come Federico Barocci, Adriano Calavalle ha guardato Urbino dalle finestre della sua casa: Urbino illuminata nel sole che sorge a esr, alonata dal rosso del tramonto. Per raggiungere Urbino e la Scuola del Libro, Adriano doveva attraversare una via ai margini di querce centenarie, superare la chiesa di San Bernardino, scendere verso il quadrivio da cui partono le strade per Pesaro e Fano, entrare nelle mura fino al Palazzo Ducale, dove, prima come allievo, poi come docente, ha perfezionato la ricerca delle tecniche incisorie. San Bernardino per la generazione di Adriano non è solo una chiesa, ma un luogo della memoria. Nella sala del refettorio del convento o in quella soprastante la chiesa di San Donato, Don Italo Mancini ha saputo dare vita ad incontri di grande fascino culturale sia per le personalità partecipanti che per i temi dibattuti. Arte, filosofia, scienza, diritto, politica, teologia erano continuamente indagate, mescolandosi alle ragioni dell’amicizia e dell’accoglienza dei padri minori, ospiti preziosi nello stile della semplicità francescana. San Bernardino, isolato monumento funebre delle memorie ducali, alle pendici delle Cesane, per molti anni è stato un centro della vita di Urbino, un luogo di scambi con le istituzioni della città e principalmente con l’Università.

San Bernardino è un cardine fra la città e i campi che si estendono fino alla vallata del Metauro e alla montagna del Petralata. I coltivi si alternano a piccole selve che, nel succedersi delle stagioni, sono stati luoghi privilegiati per l’occhio di Adriano. La galaverna negli inverni più crudi inguainava di gelo rami e tronchi e tutto si trasformava in uno scintillio di luce; in primavera si era più propensi a contemplare l’astratto disegno che le nuvole trascinate da un vento impetuoso tracciavano sul cielo a volte così azzurro; l’estate era segnata dal torpore degli attrezzi apparentemente abbandonati ai lati dei terreni; le nebbie dell’autunno colmavano i dislivelli trasformando le punte emergenti delle coline in un arcipelago irreale.

L’occhio di Adriano ha registrato tutto perché tutto ha vissuto e, quando una coppia di giovani elabora con lui il progetto del dono da affrire agli amici in occasione del matrimonio, è naturale attingere a quell’immenso deposito di immagini sublimate ormai in segni, in strutture: un soffione, un fiore sono solo una parte di quel più complesso sistema di costruzione di un edificio e di una città. Ogni immagine ha il potere magico di ricondurci ai luoghi della memoria.

Urbino, Palazzo Petrangolini 3-28 agosto 2009

Silvia Cuppini

 

Adriano Calavalle pittura grafica fotografia

Il lavoro sull’acquaforte di Adriano Calavalle meriterebbe un discorso più  impegnativo di quello che si può decentemente proporre  in un breve catalogo come questo. Non sembri una giustificazione d’uso e dicendone il perché spero di poter almeno sottolineare taluni ragioni della sua arte che riguardano la parte più seria nell’attuale sperimentazione. Infatti Calavalle ha già avvertito come siano consumate e culturalmente fragili tante proposte sperimentali (e cioè come lo sperimentalismo sia nella comunicazione, una mezza verità o un procedere per esclusione) proprio per carenza di cultura, cioè per la mancanza di conoscenza, di quelle parole significanti che non appartengono soltanto all’intelligenza. Per dirla in soldoni Calavalle ha capito il rischio dell’intellettualismo e quindi l’urgenza di riscoprire le radici con cui vitalizzare il lavoro. Preferisco parlare di lavoro perché ogni mediazione culturale è anche applicazione artigianale a dispetto delle legioni di geni che fioriscono ad ogni stagione.

Così per un verso ma anche per l’altro: la non riesumazione di un figurativo inaccettabile o per la sua ripetitività accademuca o per il suo infantilismo. Ecco quello che merita di essere veduto e raccolto in Calavalle: l’assorbimento delle cose – paesaggio e simboli – nella loro pienezza esistenziale (non so trovare altra parola) e cioè toccare nelle cose non simboli o emblemi, lirismi e arcadie ma un evento continuato e sempre essenziale al comune farsi dell’umano. Per questo il massimo dell’essenzialità – quella che semiologicamente è l’astrazione –  diventa in lui anche il recupero della realtà. Certo non bisogna nascondere quanto possa essere difficile in un artista giovane questo stretto cammino verso la compiutezza di un segno o quanto gliene resti da compiere. Quello che conta sono però la completezza dei risultati e il coraggio di un rigore disegnativo, vale a dire la sincerità con la quale cerca di restare fedele ad un’indagine paziente compiuta anche con il mezzo fotografico.  Bisognerebbe fermarsi anche su questo “vedere” non per valutarlo in sé ma per considerare quanto conti nel risultato finale, nella ricerca, cioè, di quella parola che pretende assuma la sua pregnanza.

Senigallia, Palazzetto Baviera 21 agosto . 2 settembre 1976

Valerio Volpini

 

Adriano Calavalle pittore incisore

Fin da quando Adriano Calavalle frequentava la sezione d’incisione calcografica nell’Istituto d’Arte di Urbino e specialmente allorché se ne valutò il risultato alla chiusura del corso, erano palesi in lui alcune qualità particolari, sì da trarne un promettente giudizio: chiarezza di dizione, padronanza del mestiere e un “segno” d’innata eleganza.

Dopo pochissimi anni, nonostante la sosta per il servizio militare e una assidua cura che gli viene da un incarico di insegnamento nello stesso Istituto, la sua presenza costante a mostre giovanili nella regione e fuori, le segnalazioni e alcune piccole vittorie conseguite stanno a suffragare il giudizio iniziale. Una vera passione lo incalza e lo distingue, nuove esperienze lo attirano, la sua cultura si allarga e si aggiorna. Ora frequenta un corso di Pittura all’Accademia e i problemi del figurativo e del non figurativo gli si pongono come termini di confronto. Ma a ben guardare ogni forma tracciata sembra essere conseguenza di quel moto iniziale: segno che esso dunque persiste in lui ed egli sa ascoltarlo. Dalla inquadratura di alcuni suoi disegni, delicate figure immerse in una atmosfera o più estrose immagini (quale “La gazza ladra” – premiata ed acquistata ad una mostra regionale l’estate scorsa – un morbido giuoco chiaramente ruotante intorno ad un bianco centrale) sono ancora palesi le caratteristiche del suo temperamento. Dove le esperienze odierne e quindi la mente e la mano fatte esperte lo condurranno non è facile pronosticare.

Approderà a quelle rigorose ricerche di forme essenziali cui il tentativo pittorico sembra invitarlo o rimarrà fedele alla figurazione tradizionale tanto piacevole a gustarsi?

Luoghi della sua terra ben riconoscibili o piccole scene di carattere illustrativo desunte da un testo letterario che già potresti immaginare nella pagina, facenti parte di un armonico insieme. Una particolare grazia, una fattura disinvolta nel segno sciolto, pieghevole e allusivo guida le ottocentesche figurette incise all’acquaforte per “Arcadia” del Faldella intese con la lieve ironia propria dell’autore. La grafia più rapida e viva della “puntasecca” da valore alle concise rappresentazioni dei “Racconti urbinati” e in alcune stampe di maggior respiro (“Sera al Luna-patk”, “La fornace”, “Paesaggio con cavallo”); la “maniera nera” de “La conchiglia” e “Carciofi” rende vellutata e preziosa la materia. Se da queste stampe riaffiorano ricordi dei suoi maestri (Castellani, Bruscaglia) o di altri incisori di secoli addietro, v’è pure quella innata freschezza ed eleganza a dar loro un distintivo aspetto. E tale “eleganza” di segno voi trovate in altre punte secche, le ultime credo in ordine di tempo, quali i “Fiori di cardo”, “Passa il vento”, “La pigna”, “Il girasole”.

Umili forme scrutate in un dilatarsi ed espandersi fino a suscitare ritmi che a volte appunto per la loro sinuosità formale possono richiamare una grafia “floreale” ma tenuta in una misura tanto accorta e vigilata da non discendere mai in un troppo facile decorativismo; anzi come se colte in un loro moto generatore tendessero poi ad annullare nella luce, nell’aria, lasciando di se stesse lievi tracce indicative e pur sempre riconoscibili.

E sono, esse stampe, in apparenza le meno impegnative e suggerirci il pensiero di un più stretto e approfondito colloquio che il giovane incisore è riuscito a intraprendere, finora, con piccole “cose” della natura. Se ne attendono successivi sviluppi.

Maggio 1968

Firenze, Galleria d’arte “Il semaforo” 21 giugno – 7 luglio 1968

Francesco Carnevali

 

L’impegno della associazione Versante per la poesia neodialettale

di Fabio M. Serpilli

Vale la pena ritornare su questa antologia che verrà presentata domani a Urbino in una città e sede culturalmente importanti.
È un’opera davvero fondante la letteratura dialettale marchigiana.
L’abbiamo firmata in due: Jacopo Curi e io (Fabio M. Serpilli).
Il volume ha un consistente numero di pagine: 372 e contiene 24 incisioni di un grande artista urbinate: Adriano Calavalle.
22 sono i poeti neo dialettali marchigiani inseriti, con schede bio-bibliografiche, note critiche e spazio antologico.
La struttura dell’opera è complessa e esaustiva:
Una introduzione metodologica, cui segue un breve capitolo storico e una mappatura dialettale della Regione.
CI sono capitoli dedicati alla poesia dialettale di tradizione, poi agli autori di transizione. Prima di dare voce ai neo dialettali, un capitolo riguarda il fenomeno della poesia neodialettale italiana, nel cui filone (inaugurato da Pasolini, 1952, Gianfranco Contini, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini per prestigiose Case editrici) si inserisce questa nostra opera, che Giuseppe Polimeni (Docente di linguistica presso Università. Stat. di Milano) ha definito unica e completa nel suo genere.
Ringraziamo La Regione che ci ha consentito la pubblicazione, gli autori che hanno collaborato, il grafico Maurizio Toccaceli, il prof. Gastone Mosci.
VERSANTE ha creduto in questa opera.
Un personale e sentito grazie all’amico e compagno di viaggio Jacopo Curi.

Fabio M. Serpilli

 

La parola della poetessa Ambra Dominci da Fratterosa

«Non mi commuovo facilmente, ma oggi veramente mi sono sentita emozionata. Quando finalmente ho preso tra le mani il volume “Poeti Neodialettali Marchigiani” ho realizzato di far parte di una realtà bellissima. Le poesie contenute nel volume e gli interventi appassionati degli autori che stasera si sono raccontati hanno una dignità e una sensibilità che ammiro tantissimo. Sfogliando questo volume e ritrovandomi tra loro l’emozione è stata quindi forte, ma ancora di più mi hanno emozionata le parole di presentazione ai miei versi, scritte dai curatori Fabio Maria Serpilli e Jacopo Curi. Non ero mai stata letta e analizzata e così tanto apprezzata. Di solito sono io a leggere, scrivere, commentare. È incredibile la precisione con cui la vostra lettura si è avvicinata a quello che scrivo. Grazie per il grande lavoro che state svolgendo»