Bagnasco contesta la contrapposizione “fittizia e dannosa” tra città reale e ideale. C’è una sola Genova che sta riscoprendo la sua identità

“La malattia più grave di questi tempi non è il cancro, ma la solitudine che spaventa a qualsiasi età, che colpisce soprattutto i giovani e gli anziani”. Ne è convinto il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova che in San Lorenzo si è confrontato con Giuliano Ferrara e Lorenzo Ornaghi sul tema suggestivo “La città ideale e una riflessione su Genova”, nel programma di “Cattedrale aperta”, l’iniziativa che il cardinale organizza come un momento qualificante nel suo magistero di pastore della città. Il programma degli incontri, immaginato da Bagnasco prima del crollo, diventa ora più urgente e importante perchè dopo la tragedia del ponte si è sprigionato, osserva il porporato, “un sentire comune, un senso nuovo di appartenenza”.

E’ presente anche il sindaco, Marco Bucci, in prima fila, a interrogarsi anche lui sulla Genova del dopo ponte, la Genova dell’anno 2019 appena cominciato, con il ponte oramai circondato di gru, che si preparano a “svuotare” il panorama della Valpolcevera e della città intera, che a sua volta si interroga, sottolinea Franco Manzitti su Blitz quotidiano, sul futuro, con il porto che perde traffici, il turismo che perde visitatori, gli uomini d’affari che perdono la speranza, le aziende che perdono posti di lavoro, le botteghe che perdono clienti, le strade interrotte che si svuotano nella mancanza di traffico, perfino il cielo che sembra perdere colore nello strappo di quel maledetto 14 agosto del diluvio.

Ornaghi racconta con molte citazioni il tratto della città ideale, lui si che se ne intende per la sua scienza, oggi di direttore della Biblioteca Ambrosiana, ieri di Rettore per oltre 12 anni della Università Cattolica ed anche per essere stato ministro dei Beni culturali nel governo Monti. Cita ovviamente Moro dell’Utopia, ma anche Kant, per concludere che una città ideale non è mai stata realizzata, tanto meno la Città del Soile o l’urbs o la civitas romane. Parla, Ornaghi, anche dei tempi di oggi, dello spaesamento, della rassegnazione, dell’impotenza, in attesa che la politica cambi. Come inserire in questo il progetto di un luogo ideale, quando quella politica è invasiva e pervasiva, quando chiediamo alla politica tutto e otteniamo di rimando solo quello spaesamento che si spiega con il logoramento delle istituzioni, con la sudditanza.
“La città ideale avrebbe necessità di quelle che sono le virtù teologali, cioè il contrario dei vizi capitali”, sostiene Ornaghi. Come dire che la città ideale è una proiezione quasi impossibile oggi.

Giuliano Ferrara conosce bene Genova per averla frequentata da giornalista e da politico, anche nei tempi aspri delle contrapposizioni tra i portuali, i mitici “camalli” e la città degli anni Ottanta e ha preso allora le misure del luogo. Quindi gli è facile, dopo una specie di introduzione filosofica sulla città ideale, “riscatto dal peccato originale” e sulla definizione di Kant “che non si può raddrizzare il legno storto dell’umanità”, ricordare che la città è in fondo una grande risorsa dell’ organizzazione sociale. “La città è anche come un vessillo di quello che siamo e vorremmo essere”, spiega il giornalista.

“Qui lo scetticismo non è più un proverbio, dice Ferrara, ma un metodo sistematico:” E certamente allude alla filosofia del “maniman”, classico intercalare genovese, del quale ha capito la profondità. A questo “status” prettamente genovese si riferiscono anche la capacità dei “giochi finanziari”, che diventano sotto la Lanterna un habitus non certo “ideale”, ma concreto, pragmatico.

Si arriva così alla vicenda del ponte, alla tragedia, al crac, che porta a implicazioni e riflessioni tecniche, politiche culturali, gestionali su come Genova ha reagito.

“Genova ha dimostrato cosa significa tenere su le infrastrutture, quale importanza hanno in una città che è organizzata proprio sulle infrastrutture, non solo il ponte che cade, ma anche il porto collegato con le sue divaricazioni, i tunnel, le gallerie che spuntano ovunque, la Sopraelevata, che “sfreccia nel ventre della città”, sfila davanti ai tesori della Cultura, come il Palazzo Reale. Insomma, questa è la città delle grandi partenze, dei grandi arrivi nel porto e altrove, una città che deve per forza tenere la testa sopra il pelo dell’acqua.

Ecco allora la reazione al ponte che crolla. Tutto questo spinge i non genovesi, i non scettici per genetica, quelli così differenti dai zeneisi, a capire, per esempio, lo spirito degli sfollati del ponte che formano i comitati, che trattano da pari a pari con le autostrade, con i concessionari.

Ferrara mostra ammirazione per il cardinale Bagnasco, non solo perché ha osato organizzare un dibattito come questo e poi di mantenerlo dopo il grande crollo, ma anche perché ha infuso in questa genovesità come “un carburante spirituale” nel momento della sciagura, quando sarebbe stato così facile scaricare.

“Una tragedia è una tragedia, non si può trasformare nel grottesco, sostiene, rendendo merito, Ferrara, che sottolinea come questa resta il luogo del “mugugno”, di tutte le aristocrazie, di quelle operaie, di quelle alto borghesi, perfino di quelle del vecchio calcio italiano che qui vennne fondato. La sostanza è che, cercando sempre quel parametro della città ideale, Genova affronta la curva del nostro vivere come reagente per dire che qui c’è un’anima.”

E il cardinale Bagnasco, conclude contestando la contrapposizione tra città reale e ideale, che definisce “fittizia e dannosa”, perchè l’ideale presiede alla vita e la realtà poi è sempre misurata e pesata sull’idea. L’utopia per Bagnasco è molto difficile oggi da affrontare, in tempi nei quali grandi filosofi del tempo moderno, come Zigmund Baumann, teorizzano la Retropia, il volgersi non in avanti, ma indietro.

In effetti Bagnasco, sottolinea ancora Manzitti, sorprende un po’, tessendo una specie di elogio del ’68, individuato come un tempo nel quale “tra eccessi e speranze” si immagina un futuro nel quale costruire un mondo diverso, nel quale c’è una spinta ideale che consentiva di guardare avanti con grande forza.
Invece le generazioni di oggi guardano a quel futuro con paura, temendo per la loro vita, per il lavoro, basandosi su standard di successi fittizi, angosciandosi, quasi disperandosi. E allora si guarda indietro per recuperare punti fermi, che il futuro non contiene più.
E’ una scena preoccupante nella quale le entità chiave, la famiglia, la scuola, la città stessa sembrano disgregarsi, scivolare via, diventare, sempre seguendo Baumann, liquidi e quindi imprendibili.
A questo punto dove si colloca la città, come ci si può appigliare al suo status oggi? Nessun dubbio per il cardinale dentro alla “cattedrale aperta”: la città è “la casa”, il luogo dove si ha un tetto sulla testa, “dove c’è un abbraccio di relazioni, dove non ci si sente soli…..”.