Centane. Da una antica contrada dell’isola di Procida, il romanzo che ci accompagnerà questa estate e che verrà presentato al premio Campiello

Molti sono i libri che, in primavera ancor più che in altri periodi dell’anno, vengono pubblicati. E proprio il grande numero di essi, inevitabilmente, condanna i più ad una effimera vita letteraria. Ormai anche gli esperti, i giornalisti, i docenti delle nostre università, non vanno come ospiti in trasmissioni televisive, senza mostrar almeno per qualche attimo, la copertina dell’ultimo libro che hanno pubblicato.Impossibile sempre più,per i lettori, star dietro ad una messe sempre più grande di pubblicazioni, impossibile per gli editori, talvolta anche conosciuti e diffusi sul territorio,far emergere autori nuovi, impossibile per gli autori che non dispongono di reti di relazioni adeguate, farsi leggere al di fuori di piccole cerchie di amici a cui si cerca, sempre più spesso, di far dono dei propri libri.

Ma talvolta capita, invece, che un libro che ci è stato donato ci colpisca davvero. A me è capitato. Ho cominciato a  leggere Centane, di Gea Palumbo (ed. Aracne 2018, p. 247) quasi meccanicamente, in un pomeriggio caldo e solitario di pioggia.

Ma subito il libro mi ha preso.

Mi ha preso dapprima per la storia che ricostruisce la vita di una famiglia lungo il filo di cinque generazioni di donne; una storia che parte dalle Centane (-un posto tranquillo e appartato dell’isola di Procida dove il tempo scorreva “tanto lentamente che la vita durava, come sembrava dire anche il nome del luogo, cent’anni” p. 28)- e che si sviluppa,per più di cento anni, come recita il sottotitolo del libro “…tra Procida, Napoli e dintorni”.

Mi ha preso per la descrizione di luoghi a noi vicini ma che non raramente ci sorprendono per la loro alterità, per i loro riti scomparsi, per i sentimenti antichi e “totali”, per i modi di dire ancestrali che conservano echi di modi di pensare più nostri e che pure sentiamo appartenerci(“‘-Dio lo sa e la Madonna lo vede quello che questa poveretta ha fatto per la madre- disse una donna interrompendo un attimo il rosario che stava recitando in ginocchio, accanto al letto. Tutti assentirono col capo a quel detto che ben rendeva l’idea del cristianesimo antico, potente, da secoli predicato nell’isola, di un Dio puro pensiero che tutto sa, un Dio senza volto e senza corpo, temperato dall’immagine di una Madonna che invece, vicina a uomini e donne, vede maternamente affettuosa le loro sofferenze” p. 137).

Mi ha preso per la sua scrittura leggera, antica e modernissima, una scrittura poetico-filosofica che non mi capitava da tempo di incontrare (“la cosa che più la sconvolse[…]fu quando vide la casa di Antonuccio. Non perché questa casa fosse scomparsa o, distrutta, giacesse in un mucchio di rovine. No, ciò che la sconvolgeva era proprio, per così dire, la sua “attualità”, il suo mostrarsi perfettamente e totalmente contemporanea. Lungi dal contentarsi di una vita di ricordi, di quei grigi colori che lei con il suo affettuoso pensiero le attribuiva, essa aveva vissuto in tutti questi anni una vita propria, vera, una vita indipendente… Per un attimo l’immagine della piccola casa grigia con la su cupola argentata si affiancò all’altra tutta piena della sua calma certezza di essere, e poi a poco a poco si dissolse e scomparve. Per quanti sforzi facesse non le fu più possibile rivederla davvero com’era e come per tanti anni, solo per lei, era stata”, pp. 14-15).

Mi ha preso soprattutto per il linguaggio con cui persone, paesaggi, sentimenti sono non solo descritti, ma sono amati, costruiti, scolpiti con le parole davanti ai nostri occhi:Marietta, abbandonata dal marito partito per l’America pochi giorni dopo delle nozze, dopo trenta anni di solitudine riceve la notizia che lui sta per tornare.(“A Marietta bastò quell’appellativo ‘zio’ Vincenzo. Nessuno mai l’aveva chiamato così, eppure questo era il modo di chiamarlo… quell’appellativo di zio promuoveva immediatamente il marito a parente, lo reintegrava nella famiglia, cancellava in un attimo il passato. ‘Oh potenza di Dio!’ esclamò Marietta con le lacrime agli occhi‘potenza di Dio’. Ma in realtà avrebbe voluto dire, se avesse potuto trovare parole più adatte ai suoi pensieri confusi: potere del linguaggio che trasforma il caso in necessità, cancella il tempo o lo inchioda nei fatti, accusa escludendo o perdona includendo. ‘Potenza di Dio’, disse di nuovo Marietta… p. 182”).

Ma soprattutto questo libro prende tenacemente chi lo legge, per l’immagine mutevole e appassionata di Napoli. Una Napoli dapprima vista dal margine, dal Monte di Procida dove arriva solo l’eco lontana dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, e poi descritta, da Baia, Bacoli, Pozzuoli, Arco Felice come sfondo di un amore contrastato e difficile tra templi ch non sono templi, e paesaggi che si presentano ora nella bellezza antica e perfetta dei loro ruderi monumentali, ora stravolti da una disincantata modernità.

Una Napoli anche violenta, che alcuni lasciano e rimpiangono,amano e abbandonano, ma appassionatamente seguono ogni domenica, attraverso le partite di calcio(“Solo il tifo per il Napoli resisteva a ogni attacco. Tutti i napoletani, anche quelli che mai in passato erano stati tifosi, anche quelle donne che mai se ne erano davvero interessate, tutti quelli che vivevano a Napoli e, ancor di più quelli che se ne erano andati, si ritrovavano per ogni partita nelle case, nelle pizzerie, nei bar, nei pub di Londra, di Barcellona, di Berlino, e riuniti in grandi gruppi davanti a immensi televisori, gridavano il loro affetto per quella città nell’unico modo che pareva ancora possibile: il calcio, solo il calcio pareva ormai aver assorbito ogni attaccamento, ogni affetto, ogni speranza per la città. Solo il calcio, unico, vero, immenso, popolare teatro, resisteva ancora”, p. 200).

È immancabile che, appena l’aria si fa più lievee l’estate non sembra più così lontana, in certi ambienti giornalistici si cominci a parlare dei Premi letterari. E se il Premio Strega, stabilmente incentrato nella capitale, già con marzo ha chiuso i suoi cancelli, l’altro importante premio italiano, il Campiello, più “veneto che romano”, lascia a case editrici e singoli scrittori, un po’ di questo tempo primaverile in più per meditare sulle proprie scelte.

Forse proprio questo libro, in questo lasso di tempo che ancora rimane a critici ed editori, potrebbe offrire ad una cerchia davvero più grande di lettrici e lettori lontani da Napoli (ma che, come i personaggi di questo libro,ne sanno “le chiese e le biblioteche, i teatri, i castelli e le catacombe”, quelli che ne conoscono “la millenaria storia”, p. 99),l’autentica bellezza della sua scrittura.

 

Emanuela Medi