Con don Pagliarani la Fraternità San Pio X più distante dalla riconciliazione con Roma

Il Capitolo dei Lefebvriani si è concluso nel loro “Vaticano” di Econe con due decisioni: al vescovo monsignor Bernard Fellay succede nella guida della “Fraternità Sacerdotale San Pio X” il sacerdote italiano don Davide Pagliarani, personaggio noto per avere superato nel suo estremismo il predecessore (il che è tutto dire), mentre sono stati sostituiti i “moderati”, firmatari di un documento – risultato comunque ampiamente minoritario nel consesso dei tradizionalisti – in cui si auspicava la prosecuzione del dialogo con la Santa Sede, sostituiti dai fautori della linea dello scontro.

Contro il Vaticano si sono ripetuti tutti gli anatemi tipici del repertorio dei seguaci del Vescovo francese, dall’eresia al sincretismo, dallo snaturamento della liturgia al filo islamismo.
Il Papa ha adottato verso i seguaci dello scisma il consueto metodo della misericordia: dopo la revoca della scomunica per i Vescovi ordinati illecitamente, è stata riconosciuta la validità del Sacramento del Matrimonio celebrato dai preti lefevriani, coinvolti a suo tempo anche nel Giubileo con il conferimento delle stesse potestà attribuite ai sacerdoti in comunione con Roma.

Tutto è risultato inutile, come già si era rivelata inutile l’offerta di concedere alla “Fraternità” lo “staus” di Prelatura Personale, analogamente a quanto avvenuto per l’Opus Dei e per gli Anglicani ritornati in seno al Cattolicesimo.
Prima che Lefèbrve ordinasse dei Vescovi, facendo scattare l’interdetto nei propri e nei loro confronti, uno studio pubblicato dall’illustre storico della Chiesa francese professor Nicolas Senèze aveva previsto tutto quanto si è verificato in seguito: in sostanza la constatazione dell’impossibilità di una riconciliazione.

L’uso nella Liturgia del “Vetus Ordo” costituiva, secondo l’analisi svolta dal nostro illustre e stimato collega, nulla più che un “casus belli”, il pretesto adottato per fare esplodere il conflitto: anche se il problema non è certamente costituito dalla validità della Messa in latino, quanto piuttosto dall’asserita invalidità di quella celebrata nelle lingue dette “volgari”.
Non è necessario recarsi fino in Svizzera per rendersi conto di quanto la divisione in seno alla Chiesa risulti insanabile: nella nostra Città, ogni domenica, alle nove del mattino, si celebra la Liturgia tridentina.

La Chiesa in cui si svolge la funzione è stata concessa dal Parroco nel cui territorio è compreso questo edificio di culto in base alle norme emanate a suo tempo da Benedetto XVI, che sottraggono all’Ordinario il potere di concedere la corrispondente autorizzazione.
Quanti assistono a questa celebrazione della messa non sono dei Lefebvriani dichiarati, non aderiscono allo scisma e formalmente fanno ancora parte della Chiesa Cattolica.

Costoro però non fanno mistero di condividere con la “Fraternità Sacerdotale San Pio X” la sua valutazione riguardante l’invalidità sacramentale della Messa celebrata secondo il “Novus Ordo”: se dunque per un qualsiasi motivo non possono presenziare alla Messa detta “Tridentina”, non si recano ad assistervi altrove.
A loro volta, quanti aderiscono alla riforma liturgica evitano di assistere alla celebrazione tradizionalista dal momento che nel corso dell’omelia non si perde mai l’occasione per criticare il Papa e la Chiesa Cattolica “ufficiale”: quando usiamo il termine “criticare”, ricorriamo ad un eufemismo.

Anche i rapporti personali tra le due comunità in cui sui sono divisi i Cattolici sono piuttosto freddi.
Ripetiamo che questi fedeli non si dichiarano Lefebvriani: se lo fossero, chissà che cosa succederebbe.

Viene il sospetto che la loro permanenza formale nella piena comunione con il Papa sia dovuta esclusivamente alla necessità di disporre di un luogo di Culto: non ci sono, nei dintorni, dei templi appartenenti alla “Fraternità” ora guidata da don Pagliarani.
Non sappiamo se situazione che abbiamo descritto si possa generalizzare: qualora però così fosse, l’unità tra cattolici delle due correnti sarebbe ormai puramente formale, ridotta ad un “fictio juris”.

“Ad colorandum”, aggiungiamo che la Chiesa in cui si celebra secondo il “vetus ordo” è anche sede di una storica Confraternita, della quale i tradizionalisti reclamano lo sfatto: è come se l’inquilino pretendesse di espellere il padrone di casa.
Torniamo però alla previsione formulata a suo tempo dal professor Nicolas Senèze.

Secondo questo studioso, le origini storiche dell’attuale scisma risalgono alla divisione causata nella Chiesa del suo Paese dalla “Costituzione Civile del Clero”, adottata dalla Costituente nel 1790: ancora, cioè, nel corso della prima fase – quella monarchica – della grande Rivoluzione.
Incamerati dall’erario i beni ecclesiastici e soppressi gli Ordini Religiosi, l’esercizio del culto venne autorizzato soltanto da parte del clero secolare, cui veniva però richiesto il giuramento di fedeltà allo Stato.

I vescovi ed i sacerdoti si divisero dunque tra il clero detto “giurato”, in pratica aderente alla Rivoluzione – non si dimentichi che l’adesione del Basso Clero al “Giuramento della Pallacorda” aveva permesso l’anno prima agli Stati Generali di trasformarsi in Assemblea Costituente – e quello definito “refrattario”, che continuò ad esercitare il suo Ministero in forma illegale e clandestina.

Nell’estate del 1792, quando i Prussiani avanzavano su Parigi e la Rivoluzione sembrava in pericolo, la persecuzione dei preti “refrattari” si trasformò nella loro sistematica eliminazione: solo nella Capitale, i “Sanculotti” ne sterminarono centinaia.

Venne poi, dopo la proclamazione della Repubblica, la decapitazione di Luigi XVI, la cui figura era considerata sacra essendo unto a Reims con l’olio usato – secondo la tradizione – per i Re d’Israele.
Quando Napoleone, nell’anno 1801, stipulò il Concordato con Pio VII, il Papa dovette riconoscere che nel decennio trascorso la Successione Apostolica nella Chiesa di Francia era stata mantenuta dai Vescovi “giurati”.

Gli effetti di tale riconoscimento perdurano tutt’ora, e ad esso si richiamò espressamente l’Arcivescovo di Parigi, Monsignor Vingt Trois, in occasione delle visita di Benedetto XVI.
Non è tuttavia in questione il conflitto tra una Chiesa monarchica ad una Chiesa repubblicana: la scelta compiuta a suo tempo da Monsignor Lefèbrve è determinata, secondo il Professor Senèse, dal fatto che tra i Cattolici, e non solo tra i Francesi, era corso il sangue.

Se si considerano i preti “giurati” testimoni dell’autentica Fede cattolica, non ci si può rassegnare al fatto che a dirigere la Chiesa siano gli eredi dichiarati dei loro persecutori.
Che cosa dunque dovrebbe fare il Papa per sanare lo scisma?
Non tanto riabilitare lo “Ancien Régime”, dato che questo costituisce ormai soltanto oggetto di contesa tra gli storici, quanto piuttosto restaurarlo.

Se si ponesse tale richiesta a Bergoglio, risponderebbe con le parole usate da Pio IX quando gli fu chiesto di rinunciare allo Stato Pontificio: “Non possumus”.
Occorrerebbe infatti denunciare tutti i Concordati basati sul riconoscimento del carattere laico – e non confessionale – degli stessi Stati cattolici, redatti sulla falsariga di quello stipulato nel 1801 da Papa Chiaramonti con il Generale Bonaparte.
Per giunta, mentre l’esistenza dello Stato Pontificio non aveva fondamento nel Magistero, le Costituzioni del Concilio Vaticano II che sanciscono l’accettazione della libertà di coscienza e di culto per tutte le confessioni religiose sono ormai parte integrante del Magistero della Chiesa, essendo state emanate non solo dai Vescovi, ma anche dal Papa.

Queste sono le ragioni per cui lo scisma non si può ricomporre, e nessuna concessione sul piano disciplinare da parte del Vaticano le potrà rimuovere.
C’è però un motivo nuovo nell’inasprimento delle posizione dei Lefebvriani, espresso in occasione del loro recente Capitolo.

Fino ad oggi, la situazione politica dell’Europa rendeva impensabile la restaurazione dello “status” giuridico di cui la Chiesa godeva prima della Rivoluzione Liberale: anche quando – come nel caso del Concordato con l’Italia del 1929 – si giungeva a definire “ufficiale” la religione cattolica, e si faceva coincidere la norma civile con il precetto religioso, non si metteva formalmente in discussione la libertà di coscienza e la libertà di culto.
Oggi i regimi autoritari di cui si prospetta la costituzione in Europa fanno balenare la possibilità di abolirle.

Ci sono dei Cattolici che rifiutano espressamente questa prospettiva, ma ce ne sono altri che la considerano come l’opportunità storica per fare “tabula rasa” di tutto quanto è mutato in Europa rispetto allo “Ancien Régime”, ed aspirano a restaurare l’alleanza – anzi l’identificazione – tra Trono e Altare.

Se i Lefebvriani ritengono di essere sul punto di vincere la loro battaglia in sede politica, perché mai dovrebbero piegarsi ad una Chiesa che considerano eretica proprio in quanto accetta il principio della laicità dello Stato?

Tutto spinge semmai verso una dichiarazione dello scisma, e verso il suo accrescimento numerico.
Non ci stancheremo mai di ricordare il convegno organizzato a Milano dalla Regione Lombardia insieme con il movimento dei “Cattolici Padani”, espressione religiosa della Lega, nel quale si dichiarò apertamente l’intento di costituire una Chiesa autocefala distaccata dalla Santa Sede nei territori sottratti alla sovranità dello Stato italiano.

Le questioni teologiche e magisteriali vengono usate come pretesti, proprio come nella Bisanzio del 1453: è in gioco piuttosto la collocazione geo politica della Chiesa tra una Europa “sovranista”, xenofoba e identitaria nel senso più reazionario del termine ed il mondo esterno che preme sui suoi confini.
Lo stesso conflitto, che in questo caso divide trasversalmente tutte le Chiese cristiane trovandosi tanto Cattolici quanto Evangelici schierati dall’una come dall’altra parte, si sta producendo negli Stati Uniti.
La scelta tra l’unità e lo scisma coincide in ultima istanza con la scelta tra la pace e la guerra.

Mario Castellano