Francesco e il grido del popolo. “Dobbiamo chiederci chi sia oggi il Faraone”

“Ascoltare il grido del popolo!”. Questa la ricetta di Papa Francesco per la diocesi di Roma, dettata nella basilica di San Giovanni in Laterano, la sua cattedrale, in occasione dell’incontro con il laicato e il clero che sostituisce quest’anno il Convegno Ecclesiale Diocesano. Il Pontefice invita a “incontrare e accompagnarsi sempre più con gente che già sta vivendo il Vangelo e l’amicizia con il Signore; gente che magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita; proprio
dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana”. “Quando c’è la Chiesa senza popolo – denuncia il Papa – ci sono questi servizi liturgici forse molto squisiti ma senza forza: non c’è il popolo di Dio. Mi diceva un vescovo un mese fa, più o meno, parlando del popolo di Dio, che la pietà del popolo di Dio, incarnata così, è il “sistema immunitario” della Chiesa. Parlando delle
malattie, il sistema immunitario è quella pietà popolare che sempre si attua in comunità. È vero, come dice il Beato Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, che ha i suoi difetti, ma ha tante virtù. I difetti devono guarire, ma le virtù devono crescere. Sempre valorizzare il santo popolo di Dio, che nella sua totalità è infallibile in credendo . Non dimenticate questo, questo sistema immunitario. Come possiamo andare oltre le appartenenze esclusive e rassicuranti del nostro gruppo?. Bisogna sempre esaminare questo aspetto: Io vado con il popolo di Dio? Migliorando, certo, ma sempre voglio un popolo con la Chiesa, una Chiesa con Gesù Cristo incarnato, un Gesù Cristo con Dio? Cioè il cammino inverso. È l’unico modo: la comunità ci guarisce, la spiritualità comunitaria ci guarisce”.

Francesco è sicuro che “anche a Roma, vi sono certamente donne e uomini che interpretano il loro lavoro di ogni giorno come un lavoro destinato a dare vita a qualcuno e non a toglierla; e lo fa senza mandati particolari da parte di nessuno. La nostra Chiesa deve molto a persone rimaste anonime. Le nostre comunità – esorta il Papa – diventino capaci di generare un popolo, capaci cioè di offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto”.

Papa Francesco osserva che “fenomeni come l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale, tipici di tutte le metropoli e presenti anche a
Roma, hanno già in queste nostre comunità uno strumento efficace di cambiamento. Non dobbiamo inventarci altro, noi siamo già questo strumento che può essere efficace, a patto che diventiamo soggetti di quella che altrove ho già chiamato la rivoluzione della tenerezza”. Il Papa lancia poi una domanda inquietante: “dobbiamo chiederci chi sia oggi il Farone”, suggerisce scherzando poi sul desiderio di novità senza fondamento che sembra pervadere alcuni nella Chiesa: “quelli – dice – che vogliono la panna senza la torta”.

In merito il Papa sottolinea che “se la guida di una comunità cristiana è compito specifico del ministro ordinato, cioè del parroco, la cura pastorale è incardinata nel battesimo, fiorisce dalla fraternità e non è compito solo del parroco o dei sacerdoti, ma di tutti i battezzati. Questa cura diffusa e moltiplicata delle relazioni potrà innervare anche a Roma una rivoluzione della tenerezza, che sarà arricchita dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti”.

Ma, avverte, “bisogna guardare a questo popolo e non a noi stessi, lasciarci interpellare e scomodare. Questo produrrà certamente qualcosa di nuovo, di inedito e di voluto dal Signore. C’è un passaggio previo di riconciliazione e di consapevolezza che la Chiesa di Roma deve compiere per essere fedele a questa sua chiamata: riconciliarsi e riprendere uno sguardo veramente pastorale, attento, premuroso, benevolo, coinvolto, sia verso sé stessa e la sua storia,
sia verso il popolo al quale è mandata”.

Rispondendo ad alcune domande raccolte dal vicario di Roma Angelo De Donatis, Papa Bergoglio rileva inoltre che “il lavoro sulle malattie spirituali ha avuto i suoi frutti”. E tra questi
elenca “per prima cosa, una crescita nella verità della nostra condizione di bisognosi, di infermi, emersa in tutte le parrocchie e le realtà che sono state chiamate a confrontarsi sulle malattie spirituali indicate – spiega il Pontefice – Secondo, l’esperienza che da questa adesione alla nostra verità non sono venuti solo scoraggiamento o frustrazione, ma soprattutto la consapevolezza che il Signore non ha smesso di usarci misericordia”.

Così, assicura il Papa, “siamo diventati più consapevoli di essere, per certi aspetti e per certe dinamiche emerse dalle nostre verifiche, un ’non-popolo’ chiamato a rifare ancora una volta alleanza con il Signore. Iniziando questa nuova tappa di un cammino ecclesiale a Roma,
è stato importante chiederci quali siano le schiavitù che hanno finito col renderci sterili” Papa Francesco sottolinea che “l’analisi delle malattie ha messo in evidenza una generale e sana stanchezza delle parrocchie, sia di girare a vuoto sia di aver perso la strada da percorrere. Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché
abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate, quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana”.

“Ci siamo accontentati – lamenta il Pontefice – di quello che avevamo. E qui c’è il grande tema della ipertrofia dell’individuo, dell’io che non riesce a diventare persona, a vivere di relazioni e che crede che il rapporto con gli altri non gli sia necessario. I nostri gruppi, le
nostre piccole appartenenze, si sono rivelate alla fine autoreferenziali, non aperte alla vita tutta intera. Ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di
sopravvivenza. È un bene – assicura il Papa – che questa situazione ci abbia stancato, ci faccia desiderare di uscire”.