Il grande servizio alla pace e al progresso che offre Telesur, coraggiosa emittente venezuelana (di M. Castellano)

Il “Venerdì di Repubblica” pubblica due notizie in apparenza non collegate tra loro, ma che in realtà risultano strettamente collegate.

La prima riguarda il fatto che la televisione venezuelana “Telesur”, voluta dal Presidente Hugo Chavez per diffondere all’estero il verbo della sua “Rivoluzione Bolivariana” non si dedica più soltanto a trasmettere per i diversi Paesi dell’America Latina, ma ora estende il suo raggio d’azione a molte Nazioni africane.
Per ora, le trasmissioni sono riservate a quelle di lingua inglese, essendo stata posta la base operativa a Johannesburg, ma è prevedibile che presto l’emittente sia in grado di raggiungere l’Africa francofona.

“Telesur” si propone di fare concorrenza alle grandi reti occidentali, che veicolano tesi non certamente conformi con la linea di Trump: risulterebbe d’altronde molto problematico – e addirittura controproducente – propagandare il suprematismo bianco presso i popoli di pelle scura, il suprematismo occidentale nelle Nazioni che hanno sofferto sulla pelle dei loro abitanti le ingiustizie del colonialismo, il suprematismo cattolico tradizionalista o evangelico fondamentalista laddove prevale la religione islamica e lo stesso Cristianesimo assume tendenze manifestamente sincretistiche.

Tra le grandi catene televisive statunitensi ed il Presidente non corre notoriamente buon sangue: Trump si affida alla “Fox” di Rupert Murdoch come mezzo di comunicazione di fiducia e di riferimento, e non lesina attacchi molto pesanti, a volte anche volgari e minacciosi, tanto ai grandi giornali quanto alle maggiori emittenti.

Si può dire che nessun Presidente degli Stati Uniti ha mai avuto con l’ambiente giornalistico rapporti tanto tesi ed ostili.
Quando uno straniero, non importa di quale Paese, guarda una televisione americana, può aspettarsi di tutto salvo che una propaganda appiattita sulle posizioni della Casa Bianca.

Se dunque il Venezuela di Chavez e di Maduro aggiunge la sua voce a quella di Paesi come la Russia e la Cina, che stanno intensificando al massimo i loro sforzi per veicolare i rispettivi messaggi propagandistici e culturali nelle più diverse lingue e presso il pubblico di tutto il Pianeta, non è tanto per contrastare quello proprio dei “mass media” nordamericani, quanto piuttosto per diffondere una visione del mondo e della storia completamente alternativa rispetto alla tradizionale “vulgata” occidentale.
Almeno un merito va riconosciuto alla Sinistra europea e nordamericana, in tutte le sue sfumature, dalle più moderate alle più radicali: quello di avere compiuto una profonda revisione rispetto all’ideologia che supportava il colonialismo.

Il libro di testo ufficiale dei progressisti non è quello scritto da Kipling, intento ad idealizzare una supposta missione civilizzatrice dell’Europa – il famoso “fardello dell’Uomo Bianco”, incaricato di redimere le altre razze dalla superstizione, dall’ignoranza e addirittura dalla miseria – bensì “I Dannati della Terra” di Franz Fanon, contenente la critica più totale e spietata del colonialismo.

Va detto che manca tra questi due estremi una visione critica che – lungi dall’idealizzare tante crudeltà, tanto sfruttamento e tanto disprezzo – riconosca quanto meno che tra le potenze colonialiste ed i popoli assoggettati al loro dominio si era stabilito un rapporto dialettico, in cui gli uni risvegliavano gli altri: li risvegliavano certamente a martellate, ma li costringevano a porsi il problema costituito dallo sviluppo tecnologico e dalla edificazione nelle loro Nazioni di Stati forti e moderni.
Domandiamoci chi sono stati gli eroi nazionali nella storia contemporanea dei popoli extraeuropei.

Certamente quanti li hanno condotti all’Indipendenza politica, ma anche e soprattutto gli uomini come Lenin, come Ataturk e come Mao Tse Tung, che nel nome di scelte ideologiche radicali hanno comunque promosso lo sviluppo industriale e quello delle infrastrutture, hanno liberato le donne dalla loro sottomissione, hanno acculturato e portato al potere nuovi ceti, ben più ampi di quelli che lo detenevano in precedenza.

Si pensi alla più efficace – dal punto di vista dell’analisi economica – tra le opere di Lenin: “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”.
Dopo l’emancipazione dei servi della gleba nel 1861, ad opera di Alessandro II, detto non a caso “l’Imperatore Liberatore”, tutto il mondo rurale, incapace di dotarsi di una classe di imprenditori agricoli, si indebitò con le banche: il credito era però in mano al capitale inglese e francese, così come le pochissime industrie, installate tutte a San Pietroburgo.

La Russia, incapace di costituire una borghesia nazionale, divenne una semi colonia dell’Occidente.
Cui naturalmente non importava migliorare le condizioni di vita dei contadini.

Da questa meditazione sulla storia economica del suo Paese, Lenin escogitò il più efficace degli slogan, ma anche dei programmi, della Rivoluzione: “Il Socialismo è il potere ai Soviet più l’elettrificazione rurale”, vale a dire la creazione di infrastrutture estese su tutto il territorio del Paese.
Se dunque i Bolscevichi fallirono nell’edificazione di una società più giusta, riuscirono tuttavia nella modernizzazione della Russia, rendendo quanto meno il loro Paese indipendente di fatto, e non solo di diritto.
Lo stesso si può dire a proposito di Paesi come la Turchia e la Cina.

Il discorso antioccidentale non reggeva già al tempo del comunismo come supporto alle ideologie socialiste ed in genere radicali, ma serviva – e serve tuttora – come stimolo alla ricerca dell’indipendenza economica.
Che significa essenzialmente l’uscita dalla monocoltura, cioè dell’uso del territorio in base alle esigenze dei Paesi dominanti.
Il conflitto che un tempo si svolgeva sul terreno politico permane, ma si trasferisce su quello economico.

Ecco perché certe affermazioni programmatiche, come quella che giustifica per l’appunto l’estensione di “Telesur” all’Africa, sembrano datate a certi giornalisti nostrani – sia pure di Sinistra, come il collega del “Venerdì di Repubblica”.
Esse però, per la gran parte del genere umano, non hanno perduto nulla della loro attualità: sono sotto accusa “gli imperi che hanno saccheggiato il continente, sfruttato i suoi minerali, causato guerre sanguinose, reso schiavi i suoi popoli e contribuito a migrazioni dolorose”.

Qui il discorso, sia detto per inciso, riguarda anche noi: la migrazione verso l’Europa è una conseguenza diretta del protrarsi del regime della monocoltura, che sopravvive al dominio coloniale diretto.
L’articolista del Gruppo De Benedetti si domanda come saranno i rapporti del Venezuela con Pechino, e per quale motivo non si metta sotto accusa anche il colonialismo cinese in Africa.
Noi non abbiamo paura di usare questo termine, in quanto la visione critica della realtà, la fine delle idealizzazioni determinata dalla crisi delle ideologie ci dispensa dagli eufemismi.

Possiamo aggiungere che indubbiamente i Cinesi stanno in Africa per realizzare il disegno concepito da Lenin, il quale vedeva nell’aggiramento da Sud dell’Europa Occidentale la chiave della strategia della Russia rivoluzionaria: i Cinesi realizzano quello che non riuscì ai Sovietici perché – diversamente da loro – hanno saputo sviluppare una economia efficiente, che non si limita all’esportazione delle armi.

Le infrastrutture rimangono sempre, a prescindere da chi le realizza, e non c’è dubbio che la “Via della Seta” sia fatta essenzialmente di grandi opere infrastrutturali, come strade, ponti, porti, aeroporti e perfino isole artificiali.

Certamente, Pechino porta via i prodotti minerari, boschivi ed agricoli dei Paesi africani.
Con alcune differenze, però, rispetto agli Occidentali.
In primo luogo, questi prodotti vengono lavorati in gran parte sul posto, il che incrementa l’occupazione.

I livelli salariali sono più bassi che in Cina, ma molto più alti della media locale anteriore.
Le strade che si costruiscono per portare i prodotti dall’entroterra ai luoghi di imbarco servono anche agli agricoltori per trasferire quanto coltivano verso le città, ottenendo una migliore remunerazione.
L’energia elettrica necessaria per far funzionare le fabbriche illumina anche i quartieri residenziali.
L’istruzione della mano d’opera innalza il livello culturale della popolazione.

La classe dirigente che in questo modo si viene formando è certamente legata con la Cina, come testimonia la presenza a Pechino di quasi tutti i Capi di Stato, convocati recentemente per un vertice dal Presidente della Repubblica Popolare, ma è molto più ampia di quella – molto ristretta – cui gli Europei, nel momento in cui ammainarono le loro bandiere, affidarono i rispettivi Paesi.
Se di colonialismo si tratta – come risulta innegabile – non è quello europeo, ma qualcosa di diverso, più simile ad un partenariato, sia pure sempre tra diseguali.

Che cosa hanno fatto del resto tutti i dirigenti terzomondisti per sostenere le loro battaglie?
Hanno cercato delle sponde: quella sovietica funzionava quando si trattava di combattere delle guerre, dato che Mosca mandava armi e “consiglieri” militari, mentre quella di Pechino risulta più appropriata in tempi di confronto economico.
Non dimentichiamo che spesso l’Occidente aveva negato quanto venne concesso da altri: gli Europei e gli Americani non vollero dotare l’Egitto di Nasser della Diga di Assuan, e Krusciov la costruì.

Tanto bastò per causare – o per radicalizzare – le scelte di Nasser.
Roosvelt non reagì quando il Presidente Cardenas espropriò le società petrolifere statunitensi nel Messico, ed invece Eisenhower gettò Castro nelle braccia della Russia, sollevando una questione di principio per l’esproprio di qualche zuccherificio.

Il problema, prima che militare, politico ed economico, era essenzialmente culturale: bisognava capire la radicalità di certi linguaggi, non irrigidirsi davanti a delle parole d’ordine coniate e diffuse per motivare il popolo più che per attizzare dei conflitti che dei Paesi poveri non sarebbero stati comunque capaci di sostenere.
I Cinesi si mostrano più pragmatici, se vogliamo più spregiudicati: malgrado il conflitto con i Musulmani nello Xinkiang, Pechino sta costruendo ad Algeri una delle più grandi moschee del mondo, con annesso centro culturale islamico, naturalmente gestito dai Sauditi.

Finiscono così per saldarsi delle alleanze tra soggetti molto diversi tra di loro.
Anche Bergoglio si allea con Pechino, incurante di chi si fa paladino dei Cattolici “clandestini”: i quali hanno certamente sofferto delle ingiustizie; non si dimentichi però che il contenzioso con la Cina Popolare è sorto quando anche il Vaticano si è schierato contro la riforma agraria promossa dal Governo comunista.
La scomunica dei patrioti italiani avrebbe dovuto insegnare qualcosa alla Santa Sede: “Perseverare diabolicum!”

Mario Castellano