La governabilità ostaggio di rivalse personali? Il bivio di Di Maio (di M. Castellano)

Di Maio ha ottenuto, nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso, all’incirca la stessa percentuale che ebbe Berlinguer nel 1976.

Si tratta, in entrambi i casi, di un patrimonio di consensi tale da mettere chi ne viene beneficiato davanti ad una alternativa drastica: o prendere il potere o imboccare la via di un declino irreversibile.

Quanto risulta comunque impossibile è temporeggiare, cullandosi nell’ingannevole certezza di  vivere di rendita.

L’elettorato conferisce un mandato per cambiare le cose, e chi non si impegna per cambiarle se lo vede ben presto revocare.

Berlinguer si vide attribuire dal popolo italiano il compito di realizzare quel tanto di giustizia sociale che era possibile nell’ambito dei rapporti di forze interni ed internazionali, al culmine di otto anni di lotte iniziate dagli studenti nel 1968 e proseguite dagli operai nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969.

Nella sua visione tipicamente aristocratica – il Marchese di Sassari ragionava come il il suo pari grado romanesco Marchese del Grillo, pur esprimendosi con minore volgarità nei riguardi dei plebei – sia le rivendicazioni degli studenti, sia quelle dei lavoratori dell’industria costituivano altrettanti inciampi, altrettanti inconvenienti sulla strada tracciata da Togliatti e seguita pedissequamente dai suoi successori: quella della cooptazione nel sistema di potere costituito in Italia tra il 25 luglio del 1943 ed il 18 aprile del 1948, un sistema basato essenzialmente sulla conservazione.

Certamente, nella situazione internazionale stabilita a Yalta non vi era posto per tentativi rivoluzionari, ma si potevano mutare i progressivamente i rapporti di forze.

La linea del “compromesso storico”, indicata da Berlinguer fin dal 1973 con i suoi famosi editoriali su “Rinascita” che prendevano spunto dal colpo di stato in Cile, comportava invece l’accettazione dello “status quo”, in cambio di alcuni emolumenti: che nel suo caso risultarono inferiori a quelli pretesi ed ottenuti da Nenni dieci anni prima, all’epoca del Centro – Sinistra.

A questo punto, i nostri lettori si domanderanno dove ravvisiamo una similitudine con l’atteggiamento tenuto oggi da Di Maio: l’analogia consiste nel rifiuto di governare, di cui è presupposto – in ambedue i casi – la renitenza a costituire una coalizione; per la quale certamente non basta il trentaquattro per cento, ma che su questo consenso deve essere necessariamente basata.

Belinguer affogò i suoi voti in una maggioranza priva del tutto di contenuti programmatici, mentre Di Maio compie una scelta tattica apparentemente opposta, rifiutando di entrare nella logica delle coalizioni.

In comune, però, c’è il rifiuto di una regola fondamentale delle democrazie parlamentari: per governare si deve puntare alla metà più uno dei voti, e questo obiettivo si raggiunge costituendo delle alleanze.

Le alleanze, però, si devono basare sui programmi, non su idee generiche e fumose quali a suo tempo l’antifascismo: che significava soltanto mantenere le discriminanti obsolete del 1943, non più valide nell’Italia degli Anni Settanta.

Berlinguer voleva far credere che il suo Partito, grazie semplicemente ad una presunta superiorità morale, riflesso della diversità rivoluzionaria leninista, potesse trasformare per osmosi le altre forze politiche.

Di Maio ritiene invece che l’antipolitica si affermi con la mera forza dell’esempio e della predicazione, senza essere messa alla prova dei fatti nell’esercizio del governo.

In entrambi i casi, si prescinde dalla necessità e dall’urgenza di agire sull’esistente, modificandolo almeno in parte, senza rinviare ad un ipotetico futuro rivoluzionario una palingenesi totale ma utopica.

Quando però la gente non vede nessun risultato, ritira il proprio consenso.

Il potere sta usando con Di Maio la stessa tattica attendista che gli permise di prevalere su Berlinguer: basta lasciarli cullare nella loro illusione, basta permettere di prendere tempo credendo che lavori per loro quando invece lavora per il nemico.

Se il giovane napoletano, non per caso scarso di risultati negli studi, avesse imparato la lezione della storia, espressa dagli anni in cui era appena nato o era ancora “nel mondo della luna”, ne trarrebbe qualche insegnamento.

Se poi si trattasse di un intellettuale – Di Maio è però tale come noi siamo l’Imperatore del Giappone – avrebbe letto e meditato “Guerra e Pace”: il Maresciallo Kutuzov prevalse su Napoleone semplicemente lasciandolo avanzare.

Il Marchese sardo aveva all’attivo qualche studio liceale, ma in lui allignava il disprezzo per la cultura tipico dei nobilastri di provincia, persuasi che il loro titolo li dispensi dal vegliare sui libri; il  “lazzaro” napoletano è invece un novello Masaniello, convinto che la sua furbizia di popolano valga a mettere nel sacco la gente “studiata”, come viene definita spregiativamente dalle sue parti.

Si da però il caso che Di Maio abbia trovato sulla sua strada un siciliano acculturato e intelligente, espressione di un popolo sopravvissuto a tutti i domini, capace per giunta di assimilarne gli apporti e di farne altrettanti substrati che ne alimentano la capacità di resilienza.

A Mattarella basta applicare la regola in base alla quale non si conferisce l’incarico di costituire il Governo, e tanto meno si nomina il nuovo Presidente del Consiglio se costui non dimostra di disporre di una maggioranza nelle Camere.

Di Maio ne è privo, ed inoltre – qui sta il suo errore fatale – neanche si preoccupa di ricercarla.

Salvini si dimostra più furbo, in quanto punta apertamente a causare  – o semplicemente ad attendere – nuove elezioni: se governasse oggi, dovrebbe pagare un prezzo a Berlusconi, mentre nel caso del “Capitano” il tempo lavora in suo favore, permettendogli di svuotare progressivamente l’elettorato di Forza Italia.

Quanto ai Democratici, il loro rifiuto di partecipare a qualsiasi maggioranza li riporta paradossalmente alle origini leniniste: il Parlamento è ridotto a tribuna per denunziare le ingiustizie del sistema, nella convinzione che non può servire per cambiarlo.

Non vediamo però che cosa vi sia in comune tra i rivoluzionari bolscevichi e la gente come la Boschi e la Madia: se qualcuno ha titolo per denunziare le ingiustizie del sistema, sono piuttosto i risparmiatori travolti dal crollo della Banca Etruria.

A questo punto, Mattarella potrà nominare un Governo a sua discrezione, sollecitando i Partiti a votarlo per il bene della Nazione: senza avere potuto negoziare il suo programma, e probabilmente senza esservi direttamente rappresentati.

Se le forze politiche gli conferiranno la fiducia, dichiareranno il proprio fallimento; se non la voteranno, risponderanno all’elettorato della loro mancanza di spirito patriottico.

E’ la classica alternativa del diavolo, in cui finisce ingloriosamente un sistema sorto con la Liberazione ma che da quel momento in poi ha esaurito progressivamente le proprie risorse morali, culturali e intellettuali.

Il nuovo Esecutivo agirà come commissario dell’Unione Europea, distribuendo legnate tali da fare impallidire il ricordo di quelle propinate da Monti.

L’unico contraltare al suo potere, rimarrà nelle Regioni: le quali costituiranno la sola alternativa ad un potere centrale sempre più dipendente dall’estero.

Questo, però, è un discorso che riguarda un futuro più lontano.

L’attualità ci regala l’immagine di un giovane napoletano incapace di fare politica, la cui ambizione è pari soltanto all’ignoranza e all’inettitudine.    

 

Mario Castellano