La risurrezione di Scajola è la fine definitiva del Pd (di M. Castellano)

Le elezioni comunali ad Imperia sono già praticamente vinte da Claudio Scajola.
I “Descamisados” dell’Argentina gridavano: “Mentiroso y ladròn, queremos a Peron”, intendendo significare che non amavano il Generale malgrado i suoi difetti, bensì proprio in virtù di essi.
Questa sindrome è tipica dei popoli che non cercano con i dirigenti un rapporto dialettico, in base al quale il loro mandato può essere revocato a causa di un dissenso o di un errore sopravvenuto, bensì una identificazione emotiva.
Ciò significa che Imperia, Città situata ad un tiro di sputo dal confine francese, in una terra dove la stessa identità nazionale italiana si attenua – senza peraltro che si annunci altro – è ormai completamente meridionalizzata.
Il capofila dei concittadini provenienti dal Sud, e non certo integrati culturalmente, guida la classifica delle preferenze tra i seguaci del “Bassotto”, come familiarmente – chi in modo affettuoso e chi con ostilità – gli Imperiesi chiamano l’ex Ministro.
La sua famiglia viene da Frascati, da dove il padre Ferdinando, funzionario parastatale, fu spedito dalle nostre parti.
Scajola suole dire: “Mio padre ha fatto la Resistenza in Vaticano”, e la sua affermazione contiene una contraddizione in termini di cui egli probabilmente non è consapevole.
Dentro le Mura Leonine si rifugiarono durante il Ventennio uomini quali De Gasperi, impiegato alla Biblioteca Vaticana in attesa di tempi diversi, tenuto come riserva per un eventuale ritorno dell’Italia alla vita democratica; quali Gonella, che approfittando dell’appartenenza formale dell’Osservatore Romano alla stampa estera vi redigeva gli “Acta Diurna”, attingendo notizie inaccessibili agli Italiani dai giornali stranieri; quali il Conte Della Torre, che scriveva gli editoriali in un linguaggio talmente aulico e paludato da riuscire a dissimulare – salvo per i pochi eletti in grado di capirlo – il contenuto antifascista.
Quando venne il Venticinque Luglio, valse per tutti costoro il detto evangelico, ripreso da Ignazio Silone, “et is exivit de templo”, ed egli uscì dal tempio.
La loro era stata fin da prima Resistenza, in quanto avevano osteggiato il fascismo, ed ora lasciavano lo spazio ristretto del Vaticano, sia pure dilatato idealmente e spiritualmente, per affrontare in campo aperto il nemico.

Qualcuno, contemporaneamente, vi entrava, non più per partecipare alla Resistenza, ma per dedicarsi alla resilienza.
Ecco, in questa vicenda di suo padre c’è l’essenza della vita politica di Scajola, che non ha mai affrontato un nemico in campo aperto.
Questo giudizio può sembrare ingeneroso, specialmente essendo pronunziato mentre il “Bassotto” sbaraglia i suoi competitori proprio quando – forti dell’appoggio del vecchio e del nuovo potere, cioè di Berlusconi e di Toti da un lato, di Salvini dall’altro, essi credevano ormai di averlo sconfitto per sempre.
Ed invece, saranno loro a subire il suo contrattacco: riconquistata Imperia, Scajola marcerà trionfalmente su Genova, ove ben poca resistenza potranno opporgli i personaggi paracadutati dall’alto per fare i proconsoli dell’ex Repubblica ormai assoggettata – come al tempo di Gian Galeazzo Visconti – al Ducato di Milano.
Gli occupanti, a Genova, durano poco: lo dimostra l’effimero dominio austriaco, spazzato nel 1746 dalla rivolta popolare iniziata da Balilla.
“Che l’inse?”, cioè “Comincio?”, gridò il ragazzo di Portoria scagliano il famoso sasso contro un cannone nemico impantanato davanti all’Ospedale di Pammattone.
Ora la fantasia della storia prepara un’altra insurrezione, non suscitata da un genovese ma da un frascatano.
Il che ci riporta ad una costante generale della storia italiana: per cacciare uno straniero, ne chiamiamo un altro, finendo regolarmente dalla padella nella brace.
Inutilmente ci ammoniva Alessandro Manzoni: “Il forte si mesce col vinto nemico, col nuovo signore rimane l’antico, l’un popolo e l’altro sul collo vi sta”.
Da cui la commiserazione contenuta nell’amara conclusione del Primo Coro dell’Adelchi: “Tornate alle vostre superbe, ruine, all’opere imbelli dell’arse officine, ai campi bagnati di servo sudor”.
Quanto alle “arse officine”, a Genova più non esistono, avendo l’ex Città industriale subito la sistematica distruzione delle sue manifatture.
Ciò predispone tuttavia il Capoluogo ad accogliere Scajola, proveniente dal Ponente – ha già riconquistato Alassio, grazie al fido Melgrati, ed avanza inesorabilmente verso il Levante – come un liberatore.
La costante della sua vita politica consiste da un lato nell’evitare le battaglie di principio, adeguandosi sempre al “mainstream” ideologico, oltre che nell’uso spregiudicato dell’impiego pubblico.

I suoi successi elettorali sono stati ottenuti a colpi di assunzioni nei Vigili Urbani, nei bidelli e negli spazzini: ad Imperia c’è perfino un netturbino islamista, di cui si vocifera abbia recato al futuro Sindaco l’apporto dei suoi correligionari più radicali.
Il metodo di raccolta dei suffragi è infallibile: ogni assunzione si paga con cinquanta preferenze, localizzate e riscontrabili seggio per seggio.
Dopo di che, il rampollo del “grande elettore” veste l’uniforme, naturalmente contribuendo al dissesto delle casse comunali.
E qui torniamo all’inizio, cioè al paragone con Peron, che faceva arrivare i “Descamisados” a Buenos Aires e li manteneva negli alberghi di lusso.
Scajola può essere considerato un precursore del reddito di cittadinanza, in versione municipale.
I suoi luogotenenti sono tutti di origine romanesca o meridionale, e anche i metodi ricordano le clientele del “Deep South”, con una esaltazione del ruolo dei capibastone, che sono – nella versione “Basotta” – più simili ai gerarcotti fascisti; i quali controllavano le presenze alle adunate.
In tali circostanze, ciascuno cerca affannosamente di farsi notare affinché sia annotata la sua partecipazione.
Una volta, una sventurata cercò di sottrarsi accampando che aveva l’automobile rotta: le venne inviato un altro veicolo a domicilio.
Luogo classico dei raduni era la Piscina Comunale, intitolata al caduto della Resistenza Felice Cascione (di cui si può dire che lo hanno ucciso due volte): le ragazze, tifose della locale squadra di pallanuoto – che in realtà fornisce a Scajola il suo esercito privato, inquadrato militarmente – all’apparire del “Bassotto” gridavano orgasmicamente, come se vedessero Robert Redford (il Nostro è invece piuttosto “racchio”, come si dice nei suoi luoghi di origine).
Che si tratti di un autentico Quirita, lo conferma il proverbio, secondo cui non è un vero romano chi non è mai stato detenuto a Regina Coeli: Scajola vanta un record assoluto tra i pregiudicati d’Italia, essendo stato sia nel carcere di via della Lungara, sia a San Vittore.
“In via di San Vittore c’è una campana, e quando che la suona l’è una condana”, cantava Gaber: il quale però è stato smentito da Scajola, uscito assolto dalla vicenda che lo condusse dietro le sbarre.

Dove il suo carattere – dicono – si è fortificato.
Non ce n’era d’altronde bisogno: Scajola è un gallo in un pollaio popolato di capponi.
A cominciare dai dirigenti democratici, già comunisti.
I quali sono i figli – in taluni casi anagrafici – di quanti stipularono nel 1965 il contratto fondativo (Di Maio e Salvini non hanno inventato nulla) di un “Partito Trasversale” iniziato con l’importazione di selvaggina dall’allora Jugoslavia di Tito, attraverso una società che costituiva notoriamente l’interfaccia dei servizi segreti di quel Paese.
Poi gli interessi di questa “mésalliance” si estesero fino a comprende l’edilizia – “ça va sans dire” – ed altri settori speculativi.
Il Partito Comunista si trasformò così in una sorta di corrente esterna alla Democrazia Cristiana, sostenendo – è giusto riconoscerlo – la componente avversa a Scajola.
La cui carriera divenne così tutta in salita: i Comunisti lo attaccavano, per sostenere il suo rivale interno.
Quando però alla fine il “Bassotto” vinse, gli ex Comunisti del “Partito Trasversale” andarono a Canossa da lui.
E Scajola, giustamente, li costrinse ad una anticamera umiliante.
Ora essi hanno fatto di tutto per non andare al secondo turno: avendo inopinatamente vinto la volta scorsa il candidato del Centro – Sinistra, e non essendo riusciti i dirigenti democratici a sgambettarlo in corso d’opera, né tanto meno a comprarlo (l’Ingegner Capacci rispondeva che non aveva bisogno di vendersi, essendo ricco di famiglia), oggi costoro – per penitenza – non devono più esprimere nemmeno il capo dell’opposizione.
La loro parabola si chiude così tristemente.
Ci fu un tempo in cui, essendo il “Partito Trasversale” guidato dai congiunti di Natta, proconsole in Liguria di Berlinguer, bisognava ingraziarseli per fare carriera.
Ci fu anche un tempo in cui i Partiti nazionali, tanto i Comunisti quanto i Democristiani, facevano decidere la loro politica balcanica ad Imperia: cioè, non a caso, nel luogo diametralmente opposto a Trieste: i cui abitanti auspicavano naturalmente un ridimensionamento della “Grande Serbia”.
Ciò spiega l’adesione tartarinesca espressa da Imperia per la causa criminale di Milosevic.
Adesso è tutto finito.
Anche il nostro Partito Democratico.

Mario Castellano