La Santa Sede tratta con tutti. Parolin: “non ebbe timore nemmeno dei bolscevichi”

“La diplomazia vaticana non ebbe il timore nemmeno di entrare in contatto con i rivoluzionari bolscevichi in frac e iniziare delle trattative diplomatiche per assicurare la sopravvivenza al cattolicesimo nell’Unione Sovietica. Le trattative fallirono, ma la Santa Sede riuscì almeno a inviare nell’Unione Sovietica un’imponente missione caritativa, contribuendo in tale modo a salvare migliaia di vite umane”. Lo ha ricordato il segretario di Stato Pietro Parolin intervenendo al Simposio sulla Chiesa durante la Grande Guerra che si tiene oggi e domani alla Pontificia Università Lateranense e si
conclude venerdì all’Accademia di Ungheria.

Il tentativo di avviare un dialogo con Mosca all’epoca di Lenin fu esperito, ha ricordato Parolin, “quando il regime sovietico si rivelò sorprendentemente durevole e la situazione dei cattolici entro i suoi confini sempre più drammatica, e quando persino il regime sovietico, mosso dal bisogno di consolidamento, scoprì i vantaggi politici del riconoscimento diplomatico del Papa”. “Il cristianesimo in Russia e nell’Unione Sovietica rimase comunque una delle preoccupazioni maggiori di tutti i Pontefici del travagliato XX secolo”, ha aggiunto il cardinale Parolin, rilevando che “nonostante tutte le difficoltà e la continuazione della situazione di inferiorità diplomatica legata all’irrisolta Questione romana, la guerra e gli sviluppi immediatamente postbellici, la stretta imparzialità, le vaste azioni di mediazione, di pacificazione e di assistenza e il generoso amore per l’uomo e per tutti i popoli, aumentarono il rispetto e il prestigio di cui godeva il papato e la sua diplomazia e rafforzarono le sue posizioni sullo scacchiere internazionale”. Ed infatti, “mentre all’inizio del pontificato, nel settembre 1914, la Santa Sede aveva relazioni con solo 17 stati, prima della morte di Papa Della Chiesa, nel gennaio 1922 il numero dei partner diplomatici salì a 27, tra cui non soltanto i nuovi stati che sentivano il bisogno del sostegno del sovrano più antico e dell’autorità morale del Papa, ma anche le grandi potenze staccatesi prima della guerra dai rapporti con il Papa come la Francia o la Gran Bretagna, oppure la Repubblica di Weimar, che abbandonò il vecchio sistema in cui gli stati di Prussia e di Baviera mantenevano propri rappresentanti a Roma e ospitavano i nunzi sul proprio territorio, e allacciò i rapporti diplomatici a livello centrale. Di nuovo divenne evidente che, nonostante tutte le nubi all’orizzonte, il Signore non cessava di assistere la Sua Chiesa”.

Ma anche in passaggi difficilissimi come quelli, Roma non perdeva la propria serenità, tanto che, ha raccontato Paroli, quando il nunzio apostolico a Vienna, Valfrè di Bonzo, spaventato per gli eventi dell’autunno 1918, scrisse al Papa Benedetto XV, suo amico di gioventù, una lettera piena di ansia”. E il Pontefice, pieno di ottimismo nutrito dalla fede, gli rispose: “…gli uomini dicono che tutto dipende dagli avvenimenti, io dico, che siamo nelle mani di Dio: e non vorrà Ella soggiungere che siamo in buone mani?”.

Nel suo intervento Parolin ha descritto “l’atmosfera impregnata di apprensioni e aspettative che regnava nella diplomazia di Benedetto. XV, quando il primo conflitto mondiale volgeva al termine. Si sentiva la chiara consapevolezza di assistere a sconvolgimenti di inaudita profondità, ma anche l’ottimismo cattolico pronto ad aprirsi ai nuovi cammini, che avrebbero forse messo in movimento le certezze di ieri e comportato sfide per il domani, ma anche dischiuso nuove prospettive alla missione della Chiesa”.