La vittoria della destra in Cile. L’attacco dell’Occidente a ogni tentativo di ridistribuzione delle risorse in America Latina ha favorito i conservatori (di M. Castellano)

Il Cile, insieme con la Repubblica Orientale dell’Uruguay, ha fama di essere il più influenzato dalla cultura europea tra tutti quelli dell’America Latina: se nell’Uruguay l’elemento indigeno venne sterminato immediatamente dopo l’Indipendenza, tra i Cileni originari del Vecchio Continente hanno un peso rilevante quelli di origine tedesca, oltre che italiana.
L’esperienza dell’unità Popolare di Allende, che segnò il tentativo di conciliare la via elettorale con quella insurrezionale per realizzare un disegno socialista – il Cile era stato l’unico Paese dove non si era verificato nessun tentativo di implementare la guerriglia sull’esempio di Cuba – non fu più ripetuta una volta dopo la fase del governo militare.
La Sinistra assunse infatti un orientamento decisamente “socialdemocratico”: analogamente a quanto avvenuto in Spagna, si riteneva che la moderazione nei metodi e negli obiettivi valesse a preservare la Nazione da ogni pericolo di ricaduta nella guerra civile.
Ora la vittoria della Destra, che comunque torna al potere seguendo la via elettorale già per la seconda volta dopo la dittatura di Pinochet, sembra allineare il Cile ad un blocco di Repubbliche in cui l’orientamento conservatore dei Governi coincide sostanzialmente con l’egemonia dell’elemento di origine europea nella popolazione.
Sembra dunque entrata in vigore una equazione, tanto attrattiva quanto arbitraria, tra l’influenza culturale “occidentale” e le scelte politiche assunte dai vari Stati, cui fa da contraltare l’altra corrispondenza, egualmente arbitraria, tra la tendenza “terzomondista” e l’ispirazione radicale o rivoluzionaria propria di altri Governi.
Non c’è tanto da piangere sulle sorti della Sinistra “criolla”, i cui errori dovranno essere valutati in altra sede: c’è piuttosto da rammaricarsi sulla crisi – se non sulla fine – del progetto di unità continentale; che non costituisce soltanto il sogno di Bolivar, né quello di Bergoglio, bensì rappresenta una necessità storica imprescindibile per proseguire sulla strada della democrazia e della giustizia sociale.

Nel 1783, a Parigi, i rappresentanti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America stavano negoziando il Trattato che avrebbe riconosciuto l’Indipendenza delle Tredici Colonie, sollevati dal 1776 contro la Corona d’Inghilterra.
Sia la Francia, che aveva mandato il Generale Lafayette a sostenere i ribelli, sia la Spagna – nel nome delle antiche rivalità riguardanti la spartizione delle Americhe – avevano aiutato la causa indipendentista.
Tuttavia, proprio in quella circostanza cominciò ad annunziarsi il futuro conflitto di interessi tra gli Stati Uniti ed i Paesi dell’America Latina.
Soltanto uno dei diplomatici presenti se ne rese conto, e fu il Ministro degli Esteri della Spagna, Francisco de Arango y Parreno; il quale scrisse allarmato a Madrid che le Alte Parti Contraenti avevano riconosciuto alla nuova Nazione una sfera di influenza estesa fino ai Monti Appalachi, cioè una delle catene di montagne che racchiudono, insieme con la Sierra Madre Occidentale, le immense praterie dell’Ovest: sulle quali si sarebbe esteso nel secolo successivo il “destino manifesto” della “Repubblica Stellata”.
L’allarme di Arango y Parreno non contagiò in alcun modo le altre Autorità del suo Paese, malgrado all’epoca la Spagna fosse il Paese direttamente interessato, anzi direttamente danneggiato da quanto stabilito a Parigi: il territorio delle Tredici Colonie non arrivava infatti ancora ai Monti Appalachi, e quindi era stato loro attribuito un territorio teoricamente appartenente alla Corona di Madrid.
Da allora in poi, ogni volta che si è determinato un contenzioso tra l’America Anglosassone e l’America Latina, l’Europa si è voltata dall’altra parte, non riconoscendosi negli interessi delle ex colonie spagnole e portoghesi, e non tenendo conto soprattutto del fatto che tale interesse coincideva con il nostro.

Un altro episodio che si può inserire in questo filone è costituito dalla cosiddetta “Nota Zimmermann”.
Si tratta di un evento molto poco conosciuto nel Vecchio Continente, al di fuori della cerchia ristretta degli specialisti.
Nel 1917, ferveva negli stati Uniti il dibattito tra i fautori dell’intervento nella Prima Guerra Mondiale, guidati dal Presidente Wilson, e gli isolazionisti, quando i servizi segreti nordamericani scoprirono una nota riservata inviata dal Ministro degli Esteri tedesco, per l’appunto Zimmermann, al sua Ambasciatore in Messico.
Il documento prometteva alle Autorità di questo Paese la restituzione dei territori ceduti agli Stati Uniti con il Trattato di Guadalupe Hidalgo del 1949 qualora fosse intervenuto nel conflitto a fianco della Germania.
Anche se non si trattava di un falso, il contenuto della Nota si collocava nella fantapolitica: l’idea che l’esercito messicano attraversasse il Rio Grande per invadere il territorio degli Stati Uniti era completamente fuori dalla realtà.
Tuttavia, la diffusione del documento servì a persuadere i cittadini nordamericani che nella guerra si sarebbe deciso il loro destino.

Citiamo questo episodio perché, quando si parla della triangolazione dei rapporti tra Europa, Nord America e America Latina, viene in mente la favola di Esopo: “Superior stabat lupus…”
La maggior prova della nostra inettitudine venne fornita nella fase delle dittature militari instaurate nel “Con Sud” del Continente durante gli Anni Settanta: di fronte alla distruzione delle democrazie rappresentative ed alla sistematica violazione dei diritti umani, l’unica solidarietà nei confronti dell’America Latina venne da alcuni soggetti politici e da qualche organizzazione umanitaria, mentre i Governi europei mancarono l’occasione per distinguersi dalla politica delle Amministrazioni di Washington, quanto meno sul piano dei principi.
Eppure, il pretesto del “pericolo comunista”, invocato per sostenere i vari Pinochet, Videla e Bordaberry risultava del tutto incredibile.
Oggi il contenzioso tra Stati Uniti ed America Latina, conclusa la fase storica in cui si è quanto meno affermato il principio dell’esercizio della sovranità popolare nella scelta dei Presidenti, si è spostato su di un terreno più insidioso: quello di una influenza politica mascherata – per così dire – dall’egemonia culturale.
O meglio dal pretesto di una pretesa affinità tra l’ispirazione occidentale dei vari Governi e l’asserita adozione di modelli “terzomondisti”, invisi per ciò stesso a chi stabilisce i criteri secondo cui si distinguono gli “amici” dai “nemici”.

Le prime avvisaglie di questa contrapposizione si sono manifestate in Venezuela: crediamo di essere stati tra i pochi osservatori della situazione latinoamericana che hanno denunziato come la linea di frattura politica tra i Governi di Chavez e di Maduro da una parte e l’opposizione dall’altra coincidesse non soltanto con la stratificazione delle classi sociali, ma anche con la composizione etnica del Paese: i due Presidenti sono infatti espressione della popolazione di origine afroamericana, mentre la borghesia di radice europea si sente oggi defraudata di un potere che ha detenuto ininterrottamente a partire dall’Indipendenza.
E’ poi venuta la crisi istituzionale del Brasile, dove già l’elezione di Dilma Russef aveva visto contrapporsi il Nord afroamericano e povero al Sud “europeo” e comparativamente più ricco.
Per destituire la Presidente, si è fatto ricorso ad un colpo di Stato mascherato da una sorta di “Mani Pulite” in salsa brasiliana.

In realtà, i Latinoamericani compongono una sola, grande, nazione, in quanto si identificano in una sola cultura, le cui origini sono europee, indigene ed africane.
Il Papa lo ha riaffermato chiaramente nella sua omelia per la festa della Madonna di Guadalupe.
Non ha senso domandarsi quale dei genitori influisce di più sulla personalità del figlio, ma è altrettanto certo che senza la componente indigena non esisterebbe la cultura specifica dell’America Latina.
E neanche la cultura politica propria del Continente: lo abbiamo spiegato nel nostro precedente articolo riferendoci alle radici delle scelte realizzate dal Governo di Morales in Bolivia.
A questo punto, però, lo sguardo deve andare oltre la situazione specifica dell’America Latina.
Il “mainstream” dominante nella pubblicistica europea occidentale e nordamericana associa in una sola e generica condanna tutte le esperienze politiche che si sottraggono al pensiero egemone in questa parte del mondo.
Si tende a catalogare genericamente come antidemocratico un insieme di esperienze che non devono certamente essere idealizzate, ma hanno in comune il rifiuto sia delle esigenze del capitalismo finanziario internazionale, sia dei canoni politici che esso tenta di imporre.
E’ dunque logico che vi sia chi tende ad invocare la propria affinità culturale con l’Occidente per aspirare ad un trattamento di favore.

Qui il discorso ritorna all’Europa, ed al suo atteggiamento di subordinazione nei riguardi degli Stati Uniti quando si tratta di decidere quale linea seguire nei confronti dell’America Latina.
Abbiamo già trattato ampiamente di come in certi ambienti cattolici italiani si tenda a demonizzare l’esperienza del Venezuela, ma facciamo notare che chi partecipa alla campagna contro il Governo di Maduro si trova in prima fila anche nell’opporsi ad altre esperienze, collocate in contesti culturali del tutto diversi.
E’ certo comunque che il processo di unità politica del Continente corre il rischio di arenarsi, e che un certo interventismo basato sulla cultura politica abbia ormai sostituito quello troppo sfacciato che in passato aveva ispirato i colpi di Stato militari.
Con questo, non vogliamo promuovere il processo alle intenzioni contro nessuno, si tratti del Presidente del Brasile come del nuovo Presidente del Cile.
Aspettiamo però questi soggetti alla prova dei fatti.
Non dobbiamo cadere nello stesso schematismo in base al quale la parte avversa scomunica le esperienze che non coincidono con un certo “pensiero unico”.
C’è inoltre una dinamica in base alla quale gli interessi propri del Sud del mondo finiscono per condizionare le scelte particolari e gli stessi orientamenti ideologici dei vari governanti.

E’ tuttavia preoccupante che si aprano nuove contraddizioni laddove sembrava prevalere la tendenza a ridurle.
La Chiesa ha ormai scelto, in America Latina, la causa dell’unità continentale: gli indirizzi espressi dalla CELAM non rivelano discrepanze fondamentali tra gli Episcopati dei Paesi a maggioranza creola e quelli dei Paesi dove prevale l’elemento indigeno o afroamericano; la stessa “teologia del Popolo” è stata elaborata d’altronde a Buenos Aires con la partecipazione di studiosi provenienti da tutta la regione.
Diverso è il discorso per quanto riguarda l’Europa, tenuto conto dell’orientamento espresso dagli organi dirigenti dell’Unione: qui, purtroppo, “sunt lacrmae rerum”, dato che un certo provincialismo culturale imperante a Bruxelles impedisce di cogliere quanto vi sia di positivo in esperienze collocate fuori dai canoni del “pensiero unico”.
Ritorniamo dunque al punto da cui abbiamo iniziato il nostro discorso: l’ideale di un’America Latina indipendente ed unita non è da auspicare soltanto per il bene dei suoi cittadini, ma anche per il nostro stesso interesse.
Altrimenti, quanto crederemo di guadagnare sul piano dell’affinità politica lo perderemo con l’aggravamento dello squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo.
La colonizzazione culturale, realizzata nel nome del “pensiero unico” non conviene all’Europa: occorre semmai imparare dalle esperienze degli altri.

Mario Castellano

Nella foto: la presidente uscente del Cile, esponente della coalizione sconfitta ieri, con la ex presidente del Brasile Dilma Rousseff vittima di un golpe giudiziario