L’abbraccio tra le Coree. E’ la Cina il vero artefice ed anche il reale vincitore (di M. Castellano)

E’ bastato che Trump lasciasse trapelare l’intenzione di cominciare a ritirarsi dalla Corea perché i Capi del Nord e del Sud non solo si incontrassero, ma addirittura compissero in una sola sessione di negoziato più progressi di quanti se ne fossero registrati dal 1953, in una successione interminabile di tentativi di disgelo. Ma in effetti è la Cina il vero artefice dell’attuale negoziato, ed anche il suo vero vincitore.
Lo stato di guerra, hanno dichiarato concordemente i Presidenti, è finito, e probabilmente si potrà saltare a pie’ pari la fase costituita da un formale trattato di pace per iniziare quella della della riunificazione.
Lo scenario “tedesco”, nello stesso tempo ipotizzato e temuto dagli osservatori internazionali, non si è verificato.
Non è avvenuto, in altre parole, quel collasso ad un tempo politico ed economico del regime comunista di Pyongyang paventato sia dal Sud, sia anche dalla Cina come possibile origine di un esodo di massa, che avrebbe messo in crisi la capacità dei vicini di accogliere e sfamare milioni di fuggiaschi.

Il regime comunista, per quanto si conoscano i suoi metodi brutali nell’irregimentare la popolazione, risultava tuttavia basato su di un consenso, naturalmente dovuto in parte alla mancanza di notizie dal mondo esterno, all’impossibilità di comparare la propria miseria e la propria assenza totale di libertà – non solo politica, ma anche personale – con una realtà diversa, fino ad ora sconosciuta ai sudditi di Kim Jong Un.
Mantenendo il popolo in una condizione di guerra latente, il dittatore gli dava infatti uno scopo: faceva credere cioè che ogni sacrificio fosse finalizzato alla causa nazionale della riunificazione, impedita – secondo la propaganda ufficiale – dalla presenza militare e dalla tutela politica esercitata sul regime del Sud dagli Stati Uniti.
Se da un lato questa tensione patriottica, questo vivere dal 1953 come gli Italiani durante la Grande Guerra, tesi cioè a partecipare ad uno sforzo collettivo per la salvezza della Nazione, garantiva una qualche forma di adesione coatta al regime, dall’altro lato rendeva impossibile uscire dalla”impasse” diplomatica.

Il dialogo era infatti tra sordi: Pyongyang esigeva il ritiro delle truppe americane come precondizione per aprire dei negoziati sostanziali, e Seul rispondeva che questo obiettivo poteva costituire semmai il risultato finale delle trattative.
Come sempre avviene in questi caso, lo sblocco dei negoziati si produce quando una parte – od entrambe – rinunziano alle loro petizioni di principio.
Il dittatore del Nord non chiede più che gli Statunitensi se ne vadano per sedere allo stesso tavolo col Presidente del Sud.

Kim Jong Un ha dunque ceduto?
Può essere che lo abbia fatto solo in apparenza, data la propensione di Trump, personaggio fondamentalmente isolazionista, a ritirarsi dalla Penisola.
Dato per acquisito questo presupposto, sia pure con una certa dose di incognita – e dunque di azzardo – Kim Jong Un ha iniziato a trattare nel merito.
Per evitare ogni possibile ripensamento da parte di Washington, ha anche cessato gli esperimenti balistici e nucleari: senza però diminuire di una virgola le sue capacità militari, e rimanendo dunque in grado – in linea teorica – di bersagliare con i suoi missili la “West Coast”.
Qualora dunque il processo di unificazione, ormai avviato irreversibilmente, prendesse una piega sgradita agli Stati Uniti, il dittatore potrebbe sempre ricattare l’inquilino della Casa Bianca, da un lato minacciandolo di un bombardamento, ma dall’altro rassicurandolo che i suoi obiettivi strategici non vanno al di là della riunificazione.

Gli Americani si domanderebbero in questo caso se vale la pena morire per Seul.
Sull’obiettivo della riunificazione nazionale risulta totale la concordanza di vedute con il Presidente del Sud, ma anche con quella opinione pubblica profondamente democratica, pacifista, ma soprattutto nazionalista, che ha determinato la sua elezione.
I Coreani sono disposti a lasciarsi “finlandizzare” pur di realizzare una qualche forma di riunificazione, per quanto graduale e parziale possa essere, tenuto conto della diversità profondissima tra i due regimi e tra le due società?
La risposta non è venuta in questi giorni, ma dal momento in cui i cittadini hanno scelto un Capo dello Stato che apertamente la proponeva come prezzo da pagare non solo per ottenere l’unità della Nazione, ma anche – paradossalmente – per la sua stessa indipendenza.
I Coreani ragionano infatti in termini nazionali, considerando l’unità della Patria un bene supremo cui tutto può e deve essere sacrificato, ma anche in termini nazionalistici.
Se dunque si renderà necessario farsi carico del mantenimento di concittadini del Nord, questa scelta sarà spontanea e condivisa.

Qualora inoltre fosse necessario cambiare la politica estera, anche tale prezzo sarà accettato.
Rimane fermo, infatti, che non è in questione né il regime di democrazia interna, né l’economia di mercato, la quale costituisce per il Nord il migliore supporto per uscire dalla miseria: che cosa è, d’altronde, la “finlandizzazione” se non precisamente tutto questo?
La condizione in cui vive il Paese dell’Europa Settentrionale è collaudata da tempo: i Finnici godono del benessere, e la Russia non si immischia nelle loro scelte di politica interna.
Ponendo un solo limite: i rapporti con Mosca non si possono in alcun modo mettere in discussione.
Questo “status” – nel caso della Corea del Sud – non verrebbe inoltre instaurato nei riguardi della Corea del Nord, quanto piuttosto nei confronti della Cina.
La quale sta per cogliere il primo vero frutto di una politica espansiva condotta fino ad ora con enorme prudenza, ma con altrettanta decisione.

Quando Pechino parla di una Corea denuclearizzata, non si riferisce tanto a Nord, quanto piuttosto al Sud: i suoi dirigenti non temono – in altre parole – l’atomica di Pyongyang, bensì le armi americane installate nel Sud, in prossimità dei suoi confini.
E’ dunque la Cina il vero artefice dell’attuale negoziato, ed anche il suo vero vincitore, pur essendo stata assente da una trattativa limitata ai due Stati conviventi in una stessa Nazione.
La quale non dimentica di essere stata oppressa sanguinosamente dall’altra grande Potenza asiatica: il Giappone, impossessatosi della Penisola dopo la guerra del 1905 contro la Russia e ritiratosi soltanto con la sconfitta del 1945.

La divisione della Corea non ricorda dunque ai suoi abitanti quella della Germania, quanto piuttosto l’altra separazione ancora in atto in Europa, quella dell’Irlanda: Paese nel quale la potenza dominante ha sostituito il controllo territoriale totale con uno parziale parziale.
Questa forma di influenza straniera ha cominciato da oggi a terminare, e ciò significa un altro passo avanti nel processo di autodeterminazione dei popoli, realizzato proprio laddove si credeva che le tendenze del resto del mondo non fossero in grado di influire, modificando la realtà e tracciando nuovi scenari per il futuro.

Mario Castellano