L’Iran tirato in ballo a sproposito anche dal Marocco. Cresce la tensione internazionale (di Mario Castellano)

Il pretesto trovato dal Marocco per rompere i rapporti diplomatici con l’Iran è talmente debole che perfino il nostro interlocutore, nemico dichiarato del regime clericale sciita del Paese di origine, lo ritiene infondato: gli “Ayatollah” – secondo il Governo di Rabat – starebbero aiutando i ribelli “Saharahui” che si oppongono al Regno Sceriffiano.
Il conflitto tra il Marocco ed il Fronte Polisario non ha carattere religioso, essendo ambedue le popolazioni di fede sunnita, e si è sempre qualificato come uno scontro tra opposti nazionalismi: il Marocco nega che esista la Nazione Saharahui, i cui componenti rifiutano – per motivi storici e culturali – di assimilarsi al loro potente vicino.
Che l’Iran conduca una politica espansionista, anche lontano dai suoi confini, come nel caso dello Yemen, dove sostiene gli insorti Huti, di fede sciita, contro il Governo sunnita a sua volta appoggiato dall’Arabia Saudita, è indubbio.

Tuttavia, questo interventismo degli “Ayatollah” mira a creare una sorta di “Internazionale” sciita, da loro controllata non soltanto dal punto di vista politico e religioso, ma anche con la presenza militare.
E’ dunque improbabile che si siano immischiati in un conflitto nazionalistico, dove l’ideologia cui si ispira una delle parti è ancora quella – del tutto obsoleta – dei regimi “progressisti” e laici del mondo arabo “d’antan”.
Il Fronte Polisario, in effetti, ricalcava gli orientamenti del Fronte di Liberazione Nazionale dell’Algeria, suo ispiratore e sostenitore nei tempi in cui ancora questo Paese era governato da un regime a Partito unico, imparentato con quelli del “Socialismo Reale”.
I sostenitori del Polisario vanno ricercati semmai nella superstite estrema Sinistra europea.
Il Marocc aveva tuttavia bisogno di qualche pretesto per unirsi ai sui tradizionali alleati arabi e sunniti, cioè i Sauditi, gli Emirati del Golfo e l’Egitto del Generale Sisi, impegnati ad affrontare l’Iran con l’appoggio degli Stati Uniti di Trump e in alleanza – non dichiarata ma solidissima – con Israele.
Il Governo di Netanyau non aveva mai digerito l’accordo sul nucleare con Teheran, voluto da Obama, e soprattutto dagli Europei.

Il Primo Ministro di Israele era arrivato al punto di recarsi negli Stati Uniti su invito non già del Presidente, ma del Congresso, a guida repubblicana, e non aveva esitato a causare un incidente diplomatico con l’Amministrazione criticandola in un discorso pronunziato nel Campidoglio di Washington dinnanzi alle Camere riunite.
Di Trump si può dire tutto, meno che tradisca le promesse di politica estera espresse nella sua campagna elettorale: si era impegnato a combattere l’immigrazione dall’America Latina, e lo ha fatto; si era impegnato a innalzare barriere daziarie contro i Cinesi e gli Europei per difendere i posti di lavoro dei suoi elettori, e lo ha fatto; si era soprattutto impegnato a denunziare il Trattato sul nucleare con l’Iran, e lo sta facendo.
A questo punto, l’intesa con Israele è divenuta perfetta, e Netanyau si sente autorizzato – forse anche espressamente – ad attaccare con frequenza quasi quotidiana i miliziani persiani elle loro basi, situate in quella parte maggioritaria del territorio siriano che rimane sotto il controllo governativo dopo l’accordo spartitorio stipulato tra Russia, Iran e Turchia.

A questo punto, però, la causa della difesa di Israele dalla minaccia nucleare di Teheran e dalla presenza delle sue Forze Armate sul confine del Golan si salda con il progetto di cambio di regime nel grande Paese sciita.
Certamente, i suoi governanti hanno svolto con successo una politica espansiva che li ha portati – attraverso l’Iraq, ormai saldamente in mani sciite, e la Siria dell’alawita Assad – ad affacciarsi sul Mediterraneo grazie alla “longa manus” costituita dagli “Hezbollah” libanesi.
Tuttavia, l’obiettivo perseguito da Trump non consiste soltanto nel “containement”, ma punta ad abbattere il regime clericale, restaurando lo “status quo ante” precedente la Rivoluzione di Komeini, quando lo Scià era il più fedele ed efficente alleato degli Stati Uniti nella zona.
Sulle prospettive di un possibile cambi di regime a Teheran, il nostrointerlocutore si mostra molto ottimista.
Noi non disponiamo di alcun elemento di valutazione tale da confermare o smentire i suoi auspici: può essere che valga anche per lui il “quod volimus, libenter credimus” di Giulio Cesare, maestro di realismo politico, oltre che di arte militare; come può anche darsi che i futuri eventi gli diano ragione.
L’esiliato iraniano ci descrive una popolazione pronta a liberarsi del dominio clericale, ed un regime indebolito dalla mancanza di consenso della base.

In attesa di vedere se ha ragione lui, constatamo che ogni progetto mirante ad abbattere un regime si basa sul presupposto costituito dalla presenza di “quinte colonne” all’interno del Paese.
A volte, queste “quinte colonne” esistono solo nella fantasia degli oppositori esiliati, a volte invece si dimostrano in grado di abbattere un regime anche a prescindere dall’appoggio che sia loro fornito dall’esterno.
In genere, l’obiettivo viene conseguto miscelando questi due elementi: nessuno dei quali, in genere, risulta di per sè sufficiente a causare una rivoluzione.
Lo scenario prevede dunque dapprima una guerra di logoramento in Siria, che renda impopolare un regime accusato di mandare a morire i propri sudditi in un conflitto che non li riguarda.
In questi casi, se l’opinione pubblica pacifista è in grado di esprimersi – come in Francia al tempo della guerra d’Algeria o negli Stati Uniti al tempo della guerra del Vietnam – ci si ritira; se invece il regime è troppo autoritario e sclerotico per rivedere la propria politica, finisce per crollare, come avvenne con quello di Salazar, impegnato nelle colonie africane, ma soprattutto con quello sovietico, impantanato in Afghanistan.

Varrà questo precedente per l’Iran?
“Ai posteri l’ardua sentenza”.
Si deve tenere conto del fattore identitario, che in Europa Occidentale è vissuto in termini regionalistici, in Eurpa Orientale in termini nazionalistici e fuori dall’Europa in termini religiosi.
Un musulmano sunnita non considera straniere le terre appartenenti alla “Umma”, ed un musulmano sciita ritiene proprie quelle dove si professa la sua stessa fede.
Supponiamo però che la manovra riesca, e che il logoramento cui sono sottoposti in Siria faccia cadere gli “Ayatollah”, come auspica e prevede il nostro interlocutore.
A questo punto, gli Stati Uniti si volgerebbero contro il loro vero obiettivo: la Russia.
Potrebbe questo Paese finire come l’Unione Sovietica, cioè frammentarsi secondo linee etniche e religiose?
La sua compattezza è minore di quella dell’Iran, coeso tanto per il fattore etnico e culturale quanto per quello religioso.

In Russia c’è un insediamento islamico “storico”, costituito dai discendenti dei Tartari, unito per via della lingua con la maggioranza slava e ortodossa, ma il cui identitarismo è sempre più forte.
Per il milione di Musulmani che vivono a Mosca, Putin ha costruito, ed inaugurato solennemente, la moschea più grande d’Europa.
Anche la pagoda più grande del Vecchio Continente sorge in Russia, nella terra dei Calmucchi, fedeli buddisti.
Kadyrov, il Capo della Cecenia, un ex ribelle divenuto sostenitore di Putin, come Hadzi Murad era passato a suo tempo al servizi di Nicola I, è incaricato dal Presidente di tenere i rapprti con i Musulmani Sunniti; e ci riesce bene, a giudicare dai suoi successi diplomatici.
Potrà però resistere a lungo una Russia dipendente da una sola voce del commercio estero – le esportazioni energetiche, soggette alle oscillazioni del mercato – e minata dagli identitarismi contrapposti?
Putin sostiene tutte le cause separatiste e sovraniste in Eurpa Occidentale: è solidale con il nazionalismo centralista della Le Pen, ma anche con il separatismo regionalista di Salvini, che sta festeggiando l’annessione del Friuli a un Nord Est ormai avviato a ricalcare gli antichi domini di San Marco, dall’Adda fino allo Judrio.
Qualcuno, in Occidente, sarà tentato di ripagarlo con la stessa moneta.
Durante la Prima Guerra Mondiale, gli Italiani armavano i Cecoslovacchi contro gli Austriaci, e i Tedeschi facevano insorgere gli Irlandesi contro l’Inghilterra.

Alla fine del conflitto, entrambi questi popoli si ritrovarono indipendenti.
Può essere che valga ancora una volta il proverbio “tra i due litiganti, il terzo gode”; dove il terzo sono i separatisti di ogni origine e di ogni colore.

Mario Castellano