Macron, Salvini, i Gilet gialli e il Medio Evo prossimo venturo (di M. Castellano)

Cantava ai suoi (e nostri) tempi il compianto Sergio Endrigo, arista notoriamente “engagé” – come si dice in Francia – a Sinistra: “Passa una bandiera, forse è quella buona, viva la libertà”.

Di bandiere – non essendo nati ieri – ne abbiamo già viste passare tante, ed i loro mutamenti cromatici hanno segnato l’evoluzione ideologica e culturale della nostra generazione, così come di quelle successive.

Sul finire degli Anni Sessanta, quando venne scatenata nel Vietnam – in contemporanea con il “Maggio” francese e con la “contestazione” nostrana – l’offensiva detta del “Tet”, si innalzavano naturalmente le bandiere dei Vietcong, insieme a quelle palestinesi e cubane.
Qualcuno reca ancora queste ultime al “Concertone” dei Sindacati a San Giovanni il Primo Maggio, ma non sappiamo se si tratti di un nostalgico o di un taccagno che fruga nei fondi di magazzino.

Negli Anni Settanta, ci toccò di vedere coi nostri occhi l’esibizione in un corteo delle insegne della Confederazione Sudista.
Il ragionamento retrostante a tale scelta doveva essere più o meno il seguente: poiché i Sudisti si erano opposti per primi all’imperialismo “yankee”, vale retrospettivamente per loro la regola secondo cui “i nemici dei miei nemici sono miei amici”.
Immaginiamo però lo sconcerto delle persone di origine africana nel vedere idealizzati gli schiavisti.
Quanto alle bandiere rosse, perfino l’ex Partito Comunista le ha rinnegate, tanto nell’iconografia quanto nel suo inno ufficiale, sostituito con la “Canzone Popolare”, se non andiamo errati di De Gregori.

L’inica volta che siamo andati ad una manifestazione del Partito Democratico – si esibiva all’Ariston di Sanremo quel brav’uomo del Professor Prodi – non abbiamo scorto assolutamente nessun vessillo, mentre le nostre orecchie venivano afflitte sa un rumore assordante ed indecifrabile, difficile da catalogare come “musica”.
I “portoghesi” della platea, in cambio, esplodevano in continui boati ad ogni battuta dell’oratore, come se si fosse trattato di Pajetta ad un comizio degli Anni Cinquanta.

Tramontate le ideologie che ambivano ad una “reductio ad unum” del mondo, le tendenze identitarie hanno determinato una esplosione cromatica in cui perfino gli studiosi della geografia politica hanno difficoltà a raccapezzarsi.
Già da qualche anno, sempre a San Giovanni, i Sardi innalzano le loro bandiere nazionali con i “Quattro Mori” (uguali a quelle dei Corsi), ed una volta la presentatrice, anch’ella originaria dell’Isola, li chiamò sul palco affinché facessero conosce le loro ragioni.

Ora si registra la “new entry” dei Siciliani, con il vessillo giallorosso (non c’entra la Roma) della Trinacria, lungamente oscurato dalla “damnatio memoriae” inflitta al “bandito” Giuliano: il quale non era un bandito, bensì un partigiano indipendentista.

Risponde dal prato di Pontida la Destra leghista con una platea di stendardi simile al vestito di Arlecchino: vi fanno naturalmente la parte del leone i Veneti, i quali esibiscono per l’appunto quello di San Marco.
Tempo fa, il nostro amico genovese Ubaldo Santi ci consultò in merito a quale insegna esibire in occasione dei suoi “meeting”.
Gli consigliammo naturalmente quella della “Superba” Repubblica Marinara: che è identica alla bandiera dell’Inghilterra, tanto che il Sindaco Bucci, con cupidigia tipicamente genovese, ne ha reclamato le “royalty” a Londraq.
La risposta del Governo di Sua Maestà è consistita in una lezione di storia per il Primo Cittadino, il quale – come tutti i Leghisti – è uomo di scarsa cultura: il vessillo che unisce le nostre due Nazioni, nonché la Lombardia, è quello dei Crociati, da cui tutti quanti lo abbiamo mutuato.

Non sapendo a chi rivolgersi per acquistarlo, venne compiuta una ricerca su Internet, da cui risultò che la bandiera genovese – issata da tempo sul più alto pennone di Palazzo Ducale, già sede dei Dogi, viene prodotta in serie da una ditta che la vende per corrispondenza.
I suoi titolari si dichiararono spiacenti di doverci mettere in lista di attesa, essendo subissati di ordinativi, e non in grado di accontentare tutti.

Sempre nel nostro Capoluogo, un negozio che vende le felpe con l’emblema della Repubblica e la scritta “Zena” (che significa Genova in lingua regionale), pur praticando prezzi esorbitanti è affollato di giovani entusiasmati dalla scoperta delle loro radici.
A Piazza del Popolo sono state innalzate, per deridere l’esterofilia della Sinistra (ma perché “insaevire in mortuos?”) le bandiere dell’inesistente Kakistan, con tanto di scritte in alfabeto pakistano.

Erano presenti anche alcuni vessilli rionali, il che non costituisce comunque una novità: i Senesi sono soliti porre sulla bara la bandiera della loro Contrada.
Tra noi Onegliesi, si tiene a precisare che si è di Borgo Peri, cioè del quartiere dei pescatori, distrutto dal terremoto del 1887, la cui memoria viene tuttavia perpetuata dai discendenti.
Anche la squadra di calcio locale portava questo nome, prima che Mussolini imponesse di chiamarle “Imperia”.

A Parigi sono apparse, innalzate dai “Gilet Gialli” le bandiere della Bretagna e quelle dell’Occitania.
Nella Regione atlantica, i cui abitanti sono noti in Francia per la loro proverbiale testardaggine, c’è stato perfino qualche mal consigliato che ha intrapreso delle azioni indipendentiste violente.
Quanto all’Occitania, la storia di questa Regione è tanto lunga quanto tragica.

Il suo idioma, la cosiddetta “lingua d’hoc” (da cui il toponimo Linguadoca”), è l’unica espressione straniera in cui Dante – che la conosceva perfettamente, come anche la lingua “d’oil”, cioè il Francese) – compose una terzina della Divina Commedia, quella dedicata al trovatore Bertrando del Bornio.
La Provenza conobbe nel Medio Evo una straordinaria fioritura artistica, quella detta per l’appuntodella “Civiltà Trovadorica”, distrutta con il pretesto di combattere l’eresia degli Albigesi quando il Papa Innocenzo III bandì contro di loro una crociata nel 1208.
Ancora oggi, l’Inno Nazionale occitano fa riferimento metaforicamente all’allodola, l’uccello considerato sacri dagli Albigesi, ed alla loro fede perseguitata.

La guerra culminò con l’assedio della fortezza di Montségur, dove – secondo la tradizione – veniva custodito il Sacro Graal: la storia si intreccia con la leggenda.
In realtà, in seguito al matrimonio tra Margherita, figlia del Conte Raimondo di Tolosa, ed Alfonso, fratello del Re Luigi IX, detto “il Santo”, con il trattato de Meaux del 1229, i territori dell’Occitania vennero sottomessi dalla Corona di Francia.
La quale, dichiarando ufficiale la lingua “d’oil”, intraprese l’assimilazione forzata degli Occitani.

Con la Rivoluzione, l’Abate Cambecerès, Console insieme con Bonaparte, dichiarò che la lingua provenzale era soltanto un dialetto da sradicare.
Nell’Ottocento – nel clima del Romanticismo – Federico Mistral ne ripristinò l’uso letterario, e fu a lungo – fino alla premiazione di Isaac Basevi Singer – l’unico autore insignito con il Nobel che avesse scritto in una lingua non ufficiale.

Ora la riapparizione del vessillo occitano per le vie di Parigi segna la ripresa in chiave politica di una rivendicazione fino ad ora limitata al piano culturale, se non al livello di manifestazione folcloristica.
Su questa ripresa influisce certamente l’esempio offerto dai Catalani, che sono i vicini di casa dei Provenzali.
Noi Liguri siamo cugini di entrambi, e ci accingiamo a divenire i classici “terzi Incomodi”.

Con la crisi della Presidenza di Macron, lo Stato francese è entrato in una nuova, probabilmente estrema tappa della sua decadenza.
A partire dal Venti Settembre del 1792, quando venne proclamata la Prima Repubblica, se ne sono succedute Oltralpe altre quattro, più tre diverse Monarchie, senza contare naturalmente il cosiddetto “Ancien Régime”.
Ciascuno di questi regimi costituiva l’espressione di una sua propria idea della Francia, esprimeva cioè un particolare progetto politico che trovava naturalmente degli oppositori, più o meno numerosi, ma contava anche su di un consenso più o meno radicato ed esteso, tale da òpermettergli di protrarsi nel tempo.

Macron è il primo Capo dello Stato francese che si può definire con giusta ragione “post politico”.
Le sue origini sono monarchiche: in Francia si usa il termine “royaliste” per designare i fautori dei Borboni.
Anche De Gaulle e Mitterand (che non a caso veniva dalla Vandea, i cui abitanti erano insorti in armi contro la Rivoluzione) erano monarchici, ma da questa loro radice seppero trarre – ciascuno a suo modo, ed anzi in concorrenza reciproca – una ispirazione inerente alla missione specifica, al ruolo storico incarnato dalla Francia.

La cui civiltà si era originata precisamente nel tempo in cui la figura del Sovrano era sacralizzata, essendo il Re unto a Reims, luogo della conversione di Clodoveo ad opera di San Remigio nel 496, da cui la definizione della Francia quale “Figlia Primogenita della Chiesa Cattolica”, con l’olio usato – secondo la tradizione – per i Re d’Israele.
Questa consacrazione del potere attribuito allo Stato francese veniva trasferita idealmente tanto dal Generale quanto dal Presidente socialista nella loro investitura popolare.

A loro modo, entrambi conciliavano nelle loro figure quanto risultava in apparenza inconciliabile: i due contrapposti principi della legittimità e della sovranità residente nel popolo.
I loro successori, non muniti dello stesso carisma, cercarono più modestamente di elaborare dei programmi credibili per il governo della Nazione.

Macron, l’ultimo della serie, non è portatore né di “una certa idea della Francia”, come era solito dire De Gaulle, e nemmeno di un decente piano d’azione.
La sua fede monarchica – comunque sottaciuta – costituisce soltanto una vaga nostalgia, del tutto disincarnata.
L’uomo è stato eletto in quanto – rispetto alla Le Pen – veniva percepito dai suoi concittadini come il male minore.

Anziché tentare di legittimarsi in qualche modo “a posteriori”, l’inquilino dell’Eliseo ha vivacchiato alla giornata, credendosi però anche autorizzato a farsi gioco dei suoi concittadini.
Si tratta di un esercizio oltremodo pericoloso.
Mirabeau avrebbe commentato: E’ peggio che un crimine: è un errore”.
Ecco spiegato per quale motivo i “Gilet Gialli” non innalzano né la bandiera francese, che non si riferisce ormai più ad una qualsiasi idea della Nazione, né tanto meno quella rossa, a suo tempo emblema di una ideologia internazionalista.

Si torna dunque alle identità preesistenti allo Stato nazionale.
Questa tendenza, trasferita in Italia, risulta ancora più forte: la nostra storia unitaria – paragonata con quella della Francia, è infatti ben poca cosa.
A Torino hanno già fatto il loro esordio i “Gilet Gialli” nostrani.
A volte i vegetali, quando sono trapiantati, crescono più rigogliosi.
Nel corteo contro l’Alta Velocità si esprimeva la vocazione regionalistica dei Piemontesi, cui sono accorse a dare man forte le altre genti di un’Italia in cui Metternich vedrebbe con piacere riflessa la sua famosa “espressione geografica”.

A nessuno, una volta compiuta la scelta di chiudersi nella propria dimensione regionale – interessa – e forse neanche conviene – trasformare il proprio territorio in luogo di transito per delle merci che provengono da altre origini e si muovono verso altre destinazioni.
Prima che si affermassero – con un processo che copre l’arco di tempo dal Quattrocento al Settecento – le grandi monarchie nazionali europee – ed in Italia gli “Antichi Stati” regionali, i quali svolsero ciascuno nel suo ambito la stessa funzione – le diverse economie agricole erano autarchiche.

Il sistema di coltivazione detto “a terra composta” mirava a produrre “in loco” tutto quanto era necessario per la sopravvivenza.
La monocoltura cominciò ad essere praticata quando divenne possibile – grazie alle più ampie aggregazioni territoriali ed alla conseguente maggiore sicurezza delle vie di comunicazione – il trasporto delle merci sulle lunghe distanze.

Stiamo dunque regredendo ad un “Medio Evo prossimo venturo”?
Probabilmente si.
Che cosa ci stavano a fare dunque nel corteo di Torino certi “spezzoni” – così li definisce impietosamente la stampa – dell’estrema Sinistra?
La loro motivazione può essere da un lato di tipo “neo luddista”, cioè costituita dall’avversione nei riguardi dell’evoluzione tecnologica; dall’altro può assomigliare al motivo per cui aderirono al fascismo da un lato i “Futuristi” di Filippo Tommaso Marinetti, dall’altro gli “Anarcosindacalisti” di De Ambris e di Corridoni.

A tutti costoro non importava un bel nulla di quale ordine sarebbe succeduto a quello esistente: l’importante era – dal loro punto di vista – rovesciare quello esistente.
Esattamente quanto predica Grillo, il quale mena vanto di non avere nessun progetto per il dopo, una volta preso il potere.
Ed infatti, il Governo “bipopulista” non concepisce nessuna idea dell’Italia.
Esattamente come Macron non ha nessuna idea della Francia.

A Roma – come detto – c’erano molte bandiere regionali.
I loro rispettivi alfieri non hanno evidentemente ancora capito che Salvini è un centralista spietato, e il “Capitano” – dal canto suo – lascia astutamente che continuino a cullarsi nelle loro illusioni autonomistiche e/o indipendentiste.
Un giorno, certamente, assisteremo alla resa dei conti tra il centralismo ed il separatismo: che è già in atto in Francia, e si annunzia al di qua delle Alpi con il corteo torinese degli isolazionisti calati dalle alte valli del Piemonte.

“Montani semper liberi”, fin dai tempi in cui il mitico Re Cozio patteggiava con i Romani, i quali lo lasciarono padrone delle sue cime.

La contraddizione tra quanto vuole Salvini e quanto viceversa si esige a Torino è tanto profonda e palese quanto quella aperta tra Macron ed i “Gilet Gialli”.
In Francia è già degenerata in rissa.
In Italia finirà nello stesso modo.

Mario Castellano