Quel patrimonio che si chiama Democrazia. La lezione di V. Bachelet

Molti faticano a rivivere oggi il clima teso degli anni di piombo, quelli del terrorismo e delle stragi. Da Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, il Paese fu attraversato da un segno di sangue. Bombe sui treni e nelle piazze, in obbedienza a disegni tuttora misteriosi. E attentati alle persone: gambizzazioni, rapimenti, uccisioni. Una lacerazione profonda divise l’Italia, un senso di paura e di sospetto di tutti verso tutti. Dopo le speranze e le utopie degli anni ’60, il decennio successivo fu la stagione dell’inimicizia civile. Della frattura tra giovani e adulti, tra rossi e neri, tra cittadini e istituzioni. C’era chi sparava e chi chiedeva la pena di morte.
Se è difficile ricordare quel clima, quasi impossibile è rivivere l’emozione della morte E DEIi funerali di Vittorio Bachelet, il 14 febbraio 1980, due giorni dopo il suo assassinio all’università di Roma dove insegnava. Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura e soprattutto conosciuto per essere stato per molti anni al vertice dell’Azione Cattolica italiana, era stimatissimo in tutto il Paese.

Nella gran chiesa di San Roberto Bellarmino, blindata, c’erano tutte le autorità dello Stato, rappresentanti di tutte le istituzioni che piangevano accanto ai comuni cittadini e ai giovani. Celebrava il cardinale Poletti, Presidente della Cei. In diretta Tv tutta Italia poté vedere, alla preghiera dei fedeli, un giovane dal volto sconosciuto che saliva all’altare. Era Giovanni, il figlio di 24 anni, tornato in fretta dagli Stati Uniti. Disse: «Preghiamo per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per i nostri governanti, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità della società, nel parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e con amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
L’impressione fu enorme anche per la semplicità e la totale mancanza di retorica. Parole vere ed equilibrate, in difesa della democrazia e della legalità, ma anche espressione di grande pace e bontà, sottolineate dai canti con i quali gli amici di Giovanni e Maria Grazia accompagnavano la liturgia. Molti intuirono in quel momento che la vera risposta al terrorismo era lì, davanti a loro.

Quella preghiera ha contribuito più di ogni altra cosa a fermare il terrorismo. E si è concretizzata nel comportamento di tutti i tuoi cari e di tante altre persone provate dalla violenza e dal dolore. Non possiamo dimenticare anche la testimonianza di padre Adolfo Bachelet, che non solo ha perdonato, ma ha consumato gli anni della sua vecchiaia andando di carcere in carcere per parlare e ascoltare giovani, terroristi e non, accompagnandoli nel cammino di conversione.
Adolfo era il fratello maggiore di Vittorio. Quando il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura fu ucciso, il 12 febbraio 1980, Adolfo era un anziano religioso, economo della Compagnia di Gesù. Spirito libero e arguto, i nipoti lo ricordano come un magico nonno capace di tutto: giocare e pregare, aggiustare i fili della luce, far da mangiare, spiegare i problemi più complessi, parlare con chiunque…
Forse per questo nel 1983, tre anni e mezzo dopo la morte del fratello, padre Adolfo Bachelet ricevette una lettera firmata da 18 ex terroristi, che lo invitavano ad andarli a trovare in carcere. «Mi parve logico e doveroso accettare quell’invito», dirà poi, «ricordando che sant’Ignazio voleva i gesuiti dediti alla predicazione e all’amministrazione dei sacramenti, ma anche alla riconciliazione dei dissidenti e a soccorrere quelli che sono nelle carceri». Dunque ci andò, e non una volta soltanto. In dieci anni incontra centinaia di detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri. Dapprima soprattutto ex terroristi di destra e sinistra; poi anche comuni. Frequenta tutte le più importanti carceri italiane, con moltissimi detenuti tiene una fitta corrispondenza epistolare. E quando escono. Si presentava ascoltando.

Qualche anno dopo un ex terrorista condannato all’ergastolo fece arrivare alla famiglia questo biglietto: «La testimonianza che a noi tutti diede la famiglia di Vittorio Bachelet ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della nostra azione e della lotta armata. Per la prima volta ci sentimmo interpellati eticamente e la cosa ci turbò assai; le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi. All’ora d’aria del giorno dopo nessuno di noi voleva ricordare quel fatto. Poi uno dei nostri capi storici ci provocò sull’episodio e capimmo che tutti, dico tutti, ne eravamo stati profondamente colpiti. Credo che quell’episodio segnò le nostre azioni da quel momento in poi».

Oggi i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Far crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza. Vittorio condivideva la fermissima convinzione di monsignor Costa, che il cardinale Ballestrero riassumeva così: “Preferiva essere uno sconfitto a motivo della sua mitezza che non un vittorioso a motivo della sua forza”.
Per lui il servizio era proprio servizio, senza ricambio né gloria. Era una di quelle rare persone che pensano e che fanno; e conservano la coerenza tra le parole, i pensieri e i fatti.

Dal sito dell’Azione Cattolica di Caltagirone