Quell’inutile Leopolda. La Sinistra italiana ha smarrito strada e valori (di Mario Castellano)

La politica spettacolo celebra fasti sempre più stanchi: non solo il circo è senza pane, ma il numero di spettatori ammessi sugli spalti si restringe.
Vale la pena indagare sui motivi di questa Quaresima che sta subentrando al Carnevale.
“L’Espresso” di domenica scorsa ha pubblicato l’elenco dei sottoscrittori per la fondazione di Matteo Renzi, organizzatrice della “Leopolda”.
Alcuni di questi misteriosi benefattori risultano essere scatole vuote, misteriose finanziarie di cui non si conoscono i soci, ma delle quali sono note le partecipazioni.
La finanziarizzazione dell’economia ha fatto sì che il “Padrone”, quello che nelle vignette di Grosz e di tutti i suoi epigoni nella satira politica di sinistra veniva ritratto in sembianze di uomo ben pasciuto, fumatore di sigaro e vestito con il frac, sparisse, sostituito da fantasmi tanto incorporei quanto egli era grasso.

Non c’è più un bersaglio contro il quale gridare slogan nei cortei, ma nemmeno il protagonista capace di sedere ad un tavolo con la controparte sociale ed eventualmente stipulare un accordo.
A ben guardare, fin dagli albori dell’industrializzazione, e fin dal sorgere del movimento operaio, ci sono sempre stati dei rappresentanti dell’una e dell’altra parte sociale, uomini sovente dotati di notevole spessore e di forte personalità.
Questo avveniva tanto a livello nazionale quanto a livello locale, e la capacità di coagulare ed esprimere interessi collettivi e diffusi debordava dal campo specifico della loro tutela contrattuale.
Giuseppe Di Vittorio, da questo punto di vista, fu una figura esemplare.
In lui confluivano varie origini: quella che più lo marcava, più ancora dell’adesione al pensiero marxista – comunque interpretato in modo non dogmatico – era la radice meridionale.
In un tempo nel quale l’Italia andava verso il Nord, e gli operai provenienti dal Sud cambiavano completamente la fisionomia della loro classe, rendendola meno austera e meno chiusa, ma anche più vulnerabile al consumismo, questo capo del bracciantato pugliese dirigeva prevalentemente la propria attenzione a quelle che un tempo si chiamavano “le plebi meridionali”.

Non è vero che la loro realtà culturale si riferisse soltanto ai “lazzaroni” ed ai sanfedisti, nemici delle nuove idee di eguaglianza e di libertà: permaneva, certamente, il richiamo – reso esplicito in alcune pagine di Gramsci – a quanti avevano combattuto lo Stato unitario; non però inteso quale nostalgia borbonica, bensì come difesa di una identità che la conquista “piemontese” stava calpestando.
Le lotte bracciantili – la Puglia rimase tra le poche Regioni dove l’estensione del latifondo faceva persistere questa particolare condizione sociale quale fenomeno di massa – erano vissute da Di Vittorio non tanto come un momento della dialettica marxiana tra capitale e lavoro, quanto come una espressione dell’anelito alla dignità umana.
A ben pensare, il bracciante è il lavoratore più sfruttato, perché non ha posto fisso, viene reclutato alla giornata, deve perfino competere con i colleghi per essere reclutato dal proprietario del fondo.

Le sue lotte sindacali si legano alle fasi del ciclo agricolo: avvicinandosi l’epoca – molto breve – della mietitura, si accendono conflitti talora sanguinosi, e comunque sempre drammatici; si sciopera per alzare la paga, approfittando del fatto che il prodotto deve essere raccolto prima che si deteriori, e mentre i conflitti in ambito industriale si protraggono nel tempo, quelli bracciantili si incendiano nell’arco di pochi giorni.
Rimangono famose le mediazioni cui i Governi dell’immediato dopoguerra dovevano dedicarsi, spostando Ministri e Sottosegretari nelle capitali dell’agricoltura meridionale.
Mentre intorno alle Prefetture ci si scontrava – spesso con morti e feriti – l’Esecutivo doveva far valere la propria autorità sulle parti: spesso l’accordo era risultato di un sostanziale lodo, più che di una mediazione, l’uno essendo dettato rapidamente, basandosi sull’autorità comunemente riconosciuta di chi lo pronunzia, l’altra viceversa risultando da un’opera tenace e paziente.

Si ricorda un viaggio in Calabria dell’allora giovanissimo Ministro Colombo per dirimere i conflitti bracciantili, ed i viaggi aerei di Donat Cattin con i suoi Sottosegretari verso il Meridione per praticare la “mediazione decentrata” nell’autunno caldo, che però in questo caso coincise con l’inizio dell’estate.
Negli anni successivi all’Unità, il bracciantato, specie in Romagna, fu la grande scuola dei dirigenti della Sinistra: si cimentarono nelle sue battaglie sia Mussolini sia Nenni, i quali strinsero un’amicizia personale destinata a sopravvivere alla rottura consumata prima con l’interventismo, e poi con il fascismo.
Il bracciantato fu anche l’ambito in cui si sperimentarono le diverse scuole del pensiero rivoluzionario: “in primis” l’anarco sindacalismo, curioso tentativo di conciliare le teorie libertarie con quelle socialiste, guidato da uomini come Corridoni e De Ambris, non alieni dalla pratica di forme violente di lotta, come quella detta “del fiammifero”, cioè la bruciatura delle messi; si trattava di una sorta di luddismo applicato all’agricoltura.
Di Vittorio doveva però affrontare – diversamente da quanto avveniva per i compagni del Settentrione – l’apparente inconciliabilità delle masse meridionali con lo Stato: nel Nord lo si contestava in quanto “borghese”, dominato cioè da altre classi, nel Meridione come tale, data la sua connaturata estraneità rispetto alle masse.

Per compiere quest’opera di conciliazione, Di Vittorio si affidò – anche se da socialista, quale era in origine, si trasformò in comunista – al riformismo.
Quello emiliano di Prampolini poteva contare, per sviluppare le sue cooperative, su di un ceto contadino di piccoli proprietari e di mezzadri: certamente poveri, ma pur sempre meno poveri dei braccianti meridionali; i quali non potevano contare su di un pur minimo plusvalore rispetto alle necessità legate alla sopravvivenza.
La creatività di Di Vittorio risolse il problema basandosi sulle leghe, cioè su di un sistema di solidarietà collettiva che non poteva contare su quanto la rendeva possibile per i sindacati dell’industria: nel loro caso il lavoro comune in fabbrica coagulava gli interessi e la loro rappresentanza, mentre nel caso dei braccianti meridionali l’assenza di un rapporto stabile di lavoro portava al frazionamento, in una società esposta per giunta all’arbitrio dei possidenti.
Quanto era l’orgoglio dell’operaio, a suo modo “inventore” della fabbrica, legato dunque alla sua creatività, Di Vittorio lo trovò in qualcosa di più antico del movimento operaio, ma connaturato alla radice cristiana del proletariato meridionale: la dignità umana, ciò che egli riassunse nel “non doversi togliere il cappello davanti al padrone”, e al di là di questo l’orgoglio di partecipare all’edificazione di una nuova società.
Di Vittorio rappresentò a suo modo una antitesi a Togliatti: l’intellettuale torinese era un illuminista, che calava dall’alto sulla realtà sociale un disegno astratto di trasformazione.
Di Vittorio era invece un uomo venuto dal concreto della zolla: della gleba, per usare il termine classico.

L’autonomia del Sindacato dal Partito – malgrado la famosa formula della “cinghia di trasmissione” – fu effettiva, perché mentre il Partito svolgeva una opposizione di principio ai Governi, il Sindacato organizzava mediante la contrattazione un apporto concertato allo sviluppo economico ed al progresso civile del Paese.
Che cosa c’entra tutto questo con la Leopolda di Renzi?
C’entra, perché l’astrattezza del disegno rivoluzionario si è trasformata nello snobismo consistente nel seguire le mode: si è perduto l’idealismo senza guadagnare in pragmatismo.
Ed allora ecco da un lato l’assunzione come modelli di tutto quanto risulta “trendy” e la perdita di contatto con la realtà sociale.

I precari di oggi non sono più difficili da sindacalizzare, né da inserire in un disegno alternativo della società, di quanto lo fossero i braccianti di un tempo.
Di Vittorio era uomo alieno dalla demagogia: le rivendicazioni del Sindacato comunista erano sempre compatibili con lo sviluppo del Paese, la compressione salariale fu temperata ma senza far saltare le compatibilità economiche necessarie per la ricostruzione.
La “Sinistra” post marxista di Renzi vive di demagogia, è disposta a non far quadrare il bilancio dello Stato per dare luogo all’ennesima pioggia di “bonus” demagogici.
La Sinistra “Comunista di Di Vittorio riferiva le conquiste salariali al disegno di una Italia democratica, perché su di esso è fondata la Repubblica, come dice la Costituzione.
Il lavoro: questa è in fondo la differenza tra i due personaggi; l’uno lo riteneva la base della dignità umana, l’altro pensa che se ne possa prescindere, che le sigle delle finanziarie sottoscrittrici per la Leopolda possano sostituire sia l’inventiva dell’imprenditore, sia la creatività e l’impegno dell’operaio.
La Sinistra deve ritornare alle sue origini, deve ricordarsi che il suo compito consiste nel promuovere la dignità dell’uomo.

Mario Castellano