Senza fede non c’è né Riforma né Rivoluzione. Una risposta a Massimo Cacciari (di M. Castellano)

02/04/2014, Milano, trasmissione televisiva Le Invasioni Barbariche. Nella foto Massimo Cacciari

Massimo Cacciari, su “L’Espresso” del 15 ottobre, spiega i motivi del contestuale fallimento tanto della Rivoluzione quanto della Riforma nell’Occidente.
L’ex Sindaco di Venezia prende le mosse da una considerazione di ordine etimologico, notando che parole “rivoluzione” e “riforma” hanno significati molti affini, richiamando entrambe sia il “rivolgimento”, sia la “rifondazione”.
Si tratta infatti, in ogni caso, di mutare l’esistente, sostituendolo con una realtà differente.
Si opera comunque in una situazione di crisi irreversibile, che impone la necessità di un cambiamento.

E’ tuttavia risaputo che gli uomini non fanno le rivoluzioni – lo stesso discorso vale però anche per le riforme – essendo motivati dall’istinto del cambiamento, quanto piuttosto perché sono sospinti dall’istinto di conservazione: si decide infatti di cambiare un sistema, politico od economico, solo quando non permette più di mangiare.
Le cronache dell’epoca in cui è maturata la Rivoluzione Francese – dai “cahiers de doléance” a Maria Antonietta che dice a Mirabeau “Se non hanno pane, mangino delle brioches” – così come quelle dell’Ottobre russo, raccontano tutte di gente affamata e disperata.
Non si può dimenticare tuttavia che entrambi gli eventi vennero preparati da grandi elaborazioni del pensiero politico, quella propria dell’Illuminismo francese e quella espressa dal pensiero anarchico, socialista ed nazionalista nella Russia dell’Ottocento.
Ha dunque ragione Cacciari quando annota che “grande Riforma e Rivoluzione parlano perciò sempre un linguaggio profetico, in cui la critica più radicale per lo stato e le potenze del presente si collega a un’estrema tensione per la fondazione di un ordine nuovo”.

Il filosofo vede in questo la similitudine tra i due grandi eventi di cui ricorre l’anniversario: la Riforma protestante e la Rivoluzione d’Ottobre.
Nel primo di questi due eventi, quello cui diede impulso Martin Lutero, “è il timbro religioso – teologico a dominare”.
Oggi però – annota Cacciari – si usa il termine “riforma” “per indicare proprio quei movimenti politici, i vari “riformismi” che meno hanno a che fare con quel timbro.
Questo è “rivelatore della perdita di ogni spirito profetico e utopico nel linguaggio politico dell’Occidente”.
Il Papa è l’unico soggetto che dimostra di possedere ancora il dono della profezia, essendo anche in grado di concepire l’utopia, ma non per caso la Chiesa ha dovuto cercarlo fuori dall’Europa.
A questo riguardo, è interessante notare che i quotidiani nazionali, con la doverosa eccezione di “Avvenire”, non hanno dato notizia del discorso pronunziato ieri da Bergoglio davanti alla FAO, e tanto meno lo hanno analizzato.

In compenso, possiamo leggere pagine intere sulla segatura che secernono giornalmente i nostri dirigenti politici: a dimostrazione del fatto che non solo siamo ormai incapaci di concepire l’utopia e di esprimere la profezia, ma anche – quanto è peggio – di ascoltarle.
Il Papa è un riformatore della Chiesa: se è vero che si dice “Ecclesia semper reformanda, è anche vero che questo processo, sviluppatosi al suo esterno all’epoca di Lutero, si era viceversa determinato nel suo stesso ambito con San Francesco d’Assisi; del quale non a caso Bergoglio ha voluto assumere il nome.
Cacciari sembra riferirsi precisamente al Papa quando annota che quanto “si vuole non è ripristinare il passato, ma tornare a possedere l’energia propria dell’origine, la vitalità che è propria della fonte, dell’inizio, e che la tradizione non avrebbe saputo custodire. Nel suo essere storicamente tradotto – tradito il Verbo, la potenza della Parola – Azione originaria si è andata spegnendo; le autorità, la cui missione doveva essere quella di mantenerlo vitale, hanno invece finito col comprometterlo alle potenze del secolo, con l’adattarlo ai suoi idoli. Il “Verbo” è stato tradotto nella “sapienza” di questi ultimi. Tale tradizione va radicalmente spezzata. La sua “continuità” deve essere recisa senza incertezze o timidezze. I tiepidi saranno sputati via dal Signore”.
Noi siamo fedeli al motto evangelico “nolite judicare”; tuttavia, ci pare che ben si addica ai nostri contraddittori tradizionalisti l’ammonimento formulato da Cacciari.
E’ infatti proprio a causa della presunta “tradizione”, – termine che in origine designa la trasmissione, auspicabilmente fedele, di un deposito di verità – che si è spenta quella che Cacciari chiama “la potenza della Parola – Azione originaria”: sono proprio i suoi presunti fautori quanti hanno finito col compromettere il Verbo alle potenze del secolo; se questa è dunque la “tradizione” che costoro propugnano, ha ragione Cacciari ad affermare che deve essere recisa.

Si tratta infatti sostanzialmente di una falsa tradizione: non della trasmissione del deposito originario di verità, bensì del suo adattamento “alle potenze del secolo”.
Questa operazione – per quanto comunque difficile – avviene più sovente, e con più efficacia, in sede religiosa piuttosto che in sede politica.
La stessa cronaca di questi giorni dimostra infatti che la riforma di Bergoglio – malgrado tutto – procede, mentre non si vede traccia di un analogo processo nel campo politico e nell’ambito secolare.
Quale è la ragione?
La Rivoluzione politica, risponde Cacciari, esigerebbe “altrettanta decisione e altrettanta potenza agonistica”, ma qui non sussiste – ecco la differenza – “una origine da ricordare e salvare”.
Ed infatti “la novitas che si si vuole instaurare è autonoma rispetto ai valori passati”, in quanto “l’Ordine e le leggi da stabilire appaiono esclusivamente il prodotto dell’intelligenza e della volontà del rivoluzionario”.
In parole povere, i riformatori religiosi – come San Francesco, come Lutero e come Bergoglio – possono rifarsi a quelli che Cacciari chiama “i valori passati”, mentre i rivoluzionari che agiscono in politica, che operano nella sfera secolare, dovrebbero costruirne dei nuovi.
Il rivoluzionario, afferma il filosofo, operando sul divenire storico, “certamente intende esprimere anche la verità, ma questa verità è lui solo che la realizza. Non esiste alcun modello o paradigma o Verbo che l’abbia già rivelata”.

E qui possiamo trarre dal saggio di Cacciari una prima conclusione: la rivoluzione non si è realizzata perché chi si era a suo tempo attribuito questo compito non ha saputo concepire i valori nuovi che dovevano sostituire quelli passati.
Il rivoluzionario, secondo l’ex Sindaco di Venezia, confida sulle proprie possibilità, ritiene di disporre in sé “della potenza di interpretare – e – trasformare lo stato di cose esistente, decidendo della storia che in esso ha portato”.
Il rivoluzionario, in altre parole, si colloca al di sopra della morale.
Il riformista, al contrario, si considera subordinato alla norma etica, ed anzi agisce proprio per obbedire a questa regola.
“Io devo, dice il riformatore. Dovere non significa potere, Conosco soltanto ciò che devo fare; so di dovere, non di potere. Ciò che devo mi è imposto dal Verbo”: ecco perché nella storia cristiana si annoverano dei riformatori, e non dei rivoluzionari; soltanto i riformatori, infatti, agiscono per obbedire ad un Verbo, ad una Rivelazione.
L’opera dell’uomo non ha di per sé potere salvifico, ma da questa etica si sprigiona – scrive Cacciari – una “energia straordinaria”.
Così tracciata la differenza, apparentemente inconciliabile, tra il rivoluzionario ed il riformatore, Cacciari osserva come tra le due figure esista quella che chiama una “inseparabilità”.
Ambedue le figure sono accomunate dalla loro solitudine.
Solo Dio, infatti, può giudicare la persona impegnata nel compito di riformare, precisamente in quanto si tratta dell’adempimento di un obbligo morale.
Il rivoluzionario, invece, proprio in quanto si colloca al di sopra della morale, “è lui ad assolversi, è lui a condannarsi se fallisce”.

Il rivoluzionario si colloca in una prospettiva immanentistica, non riconosce un Dio al di sopra di sé, e rimette dunque al futuro, al divenire storica la sentenza sul proprio operato.
Il riformatore, invece, in quanto credente, si rimette “alla potenza assoluta di un Signore di fronte al quale il nostro arbitrio è sempre servo”.
Abbiamo già visto come Cacciari individui la causa del fallimento dei nostri rivoluzionari nell’incapacità di trovare dei nuovi valori: questo riporta però in ultima istanza alla circostanza – Cacciari vorrà perdonarci se, in quanto credenti, ci permettiamo di annotarlo – di avere eliminato Dio dal loro orizzonte: questo non comporta tanto l’esclusione della prospettiva della trascendenza, ma soprattutto – ed è ciò che conta nel nostro discorso – l’assenza di un Verbo, di un paradigma con cui confrontare la propria azione.
Quanto al fallimento dei riformisti, l’Autore ne individua la causa nel fatto che l’etica del dovere è ormai tramontata “nella invocazione di diritti, tutti ritenuti naturali, tutti considerati dovuti alla pretesa natura umana”.
Vi è – annota Cacciari – “una pulsione alla libertà come arbitrio che occorre esser ciechi per non vedere come ovunque dilaghi”.
Passando dalla filosofia alla storia – o meglio alla cronaca – assistiamo alla riduzione del riformismo alla affermazione precisamente dei diritti personali, trascurando ed anzi vulnerando o abolendo, quelli collettivi.

I Partiti riformisti – specie in Italia, ma non solo – si occupano ad esempio di introdurre il matrimonio omosessuale, e nello stesso tempo demoliscono le conquiste sindacali dei lavoratori, cui queste forze politiche dovrebbero essere attaccate, se non atro per la memoria delle loro origini.
La legge morale che motiva il riformista – come lo stesso Cacciari afferma espressamente – è una norma stabilita da Dio, e la sua vigenza è cessata proprio per effetto del venir meno della fede.
E’ interessante notare che su questa conclusione noi credenti coincidiamo con l’agnostico Cacciari.
Quanto alle prospettive storiche, sottoscriviamo pienamente quanto scrive l’Autore a conclusione del suo saggio: “Riforma e Rivoluzione, alimento della potenza d’Europa nel moderno, sembrano rifluire in questi domestici alvei, “liquidarsi” anch’esse come la cultura e i popoli che ne costituivano l’habitat. Nessuno però può affermare che la loro assenza ne significhi la morte definitiva o se, invece, proprio nel Disordine globale che attraversiamo, esse, in esilio da qualche parte, non meditino improvvisi e catastrofici ritorni”.

Mario Castellano