Tecnologia e Giustizia, dal narcotraffico alla mala-informazione. Intervista al procuratore Gratteri

Nicola Gratteri, magistrato e saggista, non ha bisogno di presentazioni, protagonista indiscusso nella lotta alla
criminalità organizzata in tutte le sue forme, per mezzo di operazioni antimafia nazionali e
internazionali con un’efficace azione di contrasto universalmente apprezzata.
Mi sono permesso di porre in evidenza ragioni tali da rendere ancor più significativa l’azione
di Gratteri, specie in questi anni e ho così individuato delle peculiari virtù che in lui possono
rintracciarsi: la coerenza tra pensiero e azione, che viene immediatamente percepita da chi lo
ascolta o lo legge, nonché una conoscenza diretta e approfondita del fenomeno. L’alto
Magistrato nasce infatti a Gerace, paese con forte infiltrazione mafiosa e sin da bambino si
trova a giocare anche con coloro che da adulti sarebbero diventati ergastolani.
Chi meglio di lui può conoscere il modus operandi di un malavitoso, con i suoi punti deboli e
le sue strategie, riuscendo persino a prevederle? In fin dei conti, non di rado si tratta di
semplici “ladri di polli”, che sono diventati esponenti di un sistema criminale a diffusione
mondiale. I libri del dottor Gratteri non assurgono a mera cronaca di atti giudiziari, bensì
rappresentano una pregevole analisi dei profili storici, culturali e antropologici, sottolineando
come la ‘ndrangheta non sia ancorata al solo passato, ma anzi dimostrando come si sia evoluta
e capillarmente ramificata nel presente, approfittando della globalizzazione, per espandere le
proprie mire affaristiche nei vari Continenti. Nicola Gratteri, spinto dalla propria, cristallina
onestà intellettuale, è fra i pochi a promuovere una lungimirante e radicale riforma del sistema
giudiziario. Sue le parole: “se la gente non parla con noi significa che noi Magistrati non
siamo credibili” e, non a caso, nelle proposte da lui avanzate nell’ apposito Comitato istituito
dallo scorso Governo, ricorre l’opportunità di avvalersi dei processi telematici, così come vi si
tracciano nuove regole sulla confisca dei Beni. Altra priorità a lui a cuore è una parallela
riforma del sistema educativo, dalle scuole all’Università.

Klauss David, noto massmediologo, di recente ha pubblicato un articolo che mette
brillantemente a fuoco il successo che Gratteri è capace puntualmente di riscuotere, oltre che
dinanzi alle platee degli uditori, anche in televisione, dove ogni qualvolta egli appaia,
immancabilmente si alza di un punto lo share degli ascolti, anche quando denunzia come
negli sceneggiati tv e nei film, troppo spesso vi sia una pericolosa enfatizzazione che rischia
di diventare emulazione. Per poter arrivare ai più, il tipo di linguaggio che Gratteri ha scelto di
usare è schietto e diretto. Basti ricordare alcune delle sue fatiche editoriali, partendo dal 2007
con “Fratelli di sangue” e, nello stesso anno, ’ndrangheta e “le radici dell’odio”, dove la stessa
viene definita “mala pianta”. Nel 2010 poi approfondisce ancora il tema della giustizia con
“La giustizia è una cosa seria”. Nel 2011 affronta anche il rapporto della Chiesa con le Mafie,
in un libro che ha fatto scalpore: “L’acqua santissima”.

Nel 2013 si comincia a parlare in Italia delle classi dirigenti e nel 2016 arrivano “Padrini e
padroni ”, su come la ‘ndrangheta vi si sia infiltrata e, a seguire, “Fiumi d ‘oro”, sulla spinosa
questione degli investimenti mafiosi su scala globale. “Storia segreta della ‘ndrangheta”,
pubblicato nel 2018 da Mondadori, è stato il suo più recente bestseller e per diverse settimane
in cima alle vendite.
Interessante è un’osservazione di Pietro Comito, esperto di cronaca nera e giudiziaria e tra i
giornalisti calabresi più esposti nell’informazione sulla criminalità organizzata: “Gratteri ci
riabilita davanti a noi stessi e al resto del mondo, non siamo più omertosi e non dobbiamo
vergognarci di chi siamo e da dove veniamo, perché con lui si ribalta tutto”. Un invito per i
cittadini a farsi protagonisti attivi di una rivoluzione civile “della speranza”, quotidiana, che
potrà conseguirsi solo superando una radicata omertà e dal basso, orizzontalmente, cioè
prendendo coscienza e coraggio per denunziare le prevaricazioni di una presenza che
altrimenti continuerà a venir percepita come “invisibile e invincibile”. Ricordiamo infine che
il procuratore Gratteri, per la sua innanta dedizione e lo spiccato se nso di dvere e dello stato,
è costretto a vivere sotto scorta da oltre trent’anni.

Gratteri è dal 2016 Procuratore della Repubblica di Catanzaro.
Il 9 febbraio 2019 ha tenuto una lezione al Master in Intelligence, diretto dal prof. Mario
Caligiuri, presso l’Unical (Università della Calabria). In quell’occasione il Procuratore ha
parlato di Giustizia, storia delle mafie, contrasto al traffico internazionale di stupefacenti e
necessità di riforme. Ascoltando le sue parole, arricchite da quella sottile ironia che lo
caratterizza, non si può far a meno di sentirsi coinvolti in prima persona, venendo travolti da
quella passione, che è espressione di un studio approfondito e di una lotta ardua ed
instancabile contro le organizzazioni malavitose e il narcotraffico.
Rivolgendosi ai studenti il Procuratore ha detto: “Amo la mia terra e amo il mio lavoro, ma
sono indignato perché ho sessant’anni e ho altri dieci anni di attività. Solo ora comincio a
vedere qualche cambiamento. Una rivoluzione mentale che coinvolge una giovane
generazione di servitori dello Stato, che potrebbe invertire radicalmente la tendenza e in
Italia. Non è semplice ma è l’ unica strada”

Signor Procuratore, perché “la Giustizia è una cosa seria”?
Senza la Giustizia noi non potremmo dire di vivere in democrazia, altrimenti avremmo la
giungla, la legge del taglione. Anche se imperfetta, anche se perfettibile, noi non possiamo
fare a meno della giustizia, che ci serve come l’aria che respiriamo. Si possono tuttavia
rivolgere alcune critiche al sistema giudiziario. Nel mio ruolo di Procuratore, io le accetto,
ma purtroppo ritengo che se noi nel 2019 stiamo ancora parlando di riadattamento delle
mafie italiane nel mondo, è proprio per una serie di concause e quindi di corresponsabilità
che perdurano da tempo. Possiamo solo discutere sulla ripartizione delle colpe, ma siamo
tutti in effetti responsabili, a partire da noi magistrati -che abbiamo forse sottovalutato e non
capito a fondo il fenomeno- passando per le Forze dell’Ordine, gli storici, i Professori
universitari e anche certi giornalisti, che hanno dipinto le mafie agropastorali e non solo,
quasi come mero folclore. Ancora oggi uomini di pseudo-cultura e pseudo-intellettuali si
permettono di fare una temeraria differenza tra ‘la mafia buona’ di una volta e la mafia
cattiva di oggi. Un’analisi seria comporta un processo asettico, svincolato dalle proprie
ideologie politiche e da pregiudizi anacronistici. Si deve partire ancor prima dell’Unità
d’Italia, su di un piano rigorosamente documentale. Negli ultimi vent’anni c’è stata una
proliferazione di libri sulle mafie, per lo più romanzati e che a ben leggerli sono sin troppo
simili tra loro, sempre privi di elementi innovativi e mai suffragati da un tale e indispensabile
presupposto e approccio storico-scientifico.

In quale periodo storico si hanno i primi esempi di malavita italiana?
Oggi non so se la mafia calabrese sia la più potente del mondo occidentale, ma sicuramente è
la più ricca, non fosse altro perché importa l’80% della cocaina in Europa. Nei libri “Fratelli
di sangue” e “Dire e non dire”, scritti insieme al professor Nicaso, raccontiamo che le prime
volte che incontrammo il termine ‘ndrangheta furono rispettivamente in un documento del
1930, trovato nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria e poi nel 1951,
quando il celebre scrittore Corrado Avaro, figlio di uno ‘ndranghetista, in un articolo de Il
Corriere della sera usa tale denominazione. Da una ricerca documentale sul carcere
dell’isola di Favignana, esistente già nel periodo borbonico, abbiamo scoperto che tutti gli
oppositori venivano rinchiusi insieme. Oltre ai detenuti politici, vi erano anche criminali
campani, calabresi e siciliani, i quali cominciano a mutuarne gli atteggiamenti, i
comportamenti, i codici di linguaggio, nel tentativo di vestire di nobiltà il loro modi arcaici,
rozzi e incolti.

Venivano così a generarsi delle nuove regole al punto che, dopo l’Unità d’Italia, erano attivi
nel latifondo attraverso la figura del massaro, dedita a gestire la classe contadina e altre
maestranze, presenziando alla divisione del ricavato dei prodotti. Subentrarono quindi dei
nuovi piccoli delinquenti, i “picciotti”, che rubavano nei terreni del padrone. Il massaro, per
risolvere tali problemi non si rivolgeva alle istituzioni di allora, ma negoziava direttamente
con loro, andando a restituire una parte di quanto sottratto e tenendosi per sé una cospicua
ricompensa.

Così facendo, il ladruncolo diventò l’interlocutore privilegiato nell’amministrazione della
giustizia, dell’ordine pubblico, della sicurezza e della gestione dell’ordine sul latifondo.
Colui che prima viveva di espedienti, riesce ad avere tanto di quel potere da intervenire
anche nel conflitto tra famiglie; nella lite di un confine, per una figlia sedotta e abbandonata
ed altre problematiche. Questo succedeva già nell’Ottocento, ad esempio nel 1869 durante le
elezioni comunali a Reggio Calabria. Fu il primo caso di elezioni annullate da un Prefetto in
Italia per brogli. Vi erano due liste, una appoggiata dalla chiesa e dai Borboni, l’altra dai
latifondisti e dalla classe borghese. Cosa fa allora la classe borghese in quell’occasione?
assolda i picciotti per andare a malmenare i candidati e gli elettori della lista opposta. Il
Questore si prestò inoltre a fare incarcerazioni preventive per chi si pensava avesse votato
contro la parte rappresentata da latifondisti e borghesia.

Ieri come oggi, abbiamo sempre questa classe dirigente, borghese, in giacca e cravatta che
dà benzina alla macchina della criminalità. Facendo poi un salto lungo un secolo, fino al
periodo più nero della Calabria, quello dei sequestri di persona, il “figlio-mostro” generato
dalla classe dirigente borghese “mangia la mamma” che l’ha generato. Ovvero,tutta la
borghesia degli anni ’70/80 viene spazzata via, ogni persona benestante calabrese, venne
sequestrata. Chi rimase svendette latifondi e beni, spostandosi in centro Italia. Da allora i
figli degli ‘ndranghetisti, laureati sopra o sottobanco, per favorìe oppure minacce, sono
diventati a loro volta classe dirigente. Medici, ingegneri, avvocati, con titolo di studio legale
quindi, ma con approccio mafioso, gestendo di conseguenza la cosa pubblica in modo
malavitoso; come nel caso della Sanità, tanto che ora come ora, chi può e si ammala, anche
solo di bronchite, scappa da Roma in su a farsi curare.
Dottor Gratteri, si parla molto di mafie ultimamente, ma forse non se ne parla nei giusti
contesti e da un corretto punto di vista. A causa anche di film e serie tv si ne è impressa
una visione sicuramente distorta nell’ immaginario collettivo. Quanto questa sorta di
idealizzazione romanzata, è mistificata e quindi deleteria rispetto al contesto che noi
tutti oggi viviamo?
Non bisogna banalizzare e prendere in considerazione una narrazione falsa della realtà delle
cose. Io ho dedicato gran parte della mia vita al contrasto delle mafie. Un fenomeno a cui
prestare particolare attenzione è il possibile condizionamento diretto o indiretto di alcuni
media d’élite, da parte di queste associazioni criminali che, sistematicamente, cercano di
delegittimare le attività dei servitori dello Stato. La mafia non ha ideologia, è vigliacca, ha
sempre ucciso anche donne e bambini in modo feroce; l’unica ideologia che ha, è quella
dell’aumentare il proprio potere. Non esiste la mafia buona, non esiste distinzione fra mafia
buona e cattiva. Se parliamo di rispetto delle regole, i capimafia non rispettano regole, fanno
le loro regole che gli altri devono rispettare, per poi ucciderli, per condannarli in un
processo-farsa. Posso raccontare di capimafia, di contabili che, con la scusa dell’assistenza
alle famiglie dei detenuti, violentavano le donne degli stessi detenuti. Anche quando voi
sentite miei colleghi, studiosi, economisti, analisti,che dicono che la mafia è in grado di
schiacciare un bottone e muovere milioni, sono balle. Io vorrei che i cosiddetti addetti ai
lavori incominciassero a parlare di realtà, non di fantasie. Raccontiamo le storie vere,
cosicché la gente si dia la misura esatta di come stanno le cose e che si possano poi, in modo
serio e tecnico, creare le norme proporzionate alla realtà criminale per poterla contrastare.

Come può la rete del narcotraffico far arrivare la droga in Europa, nonostante i
controlli e come si connettono le mafie fra loro?

“Esiste una struttura terroristica sovranazionale che sta appunto sopra gli Stati e le mafie,
una sorta di agenzia recupero crediti, alla quale si rivolgono i cartelli colombiani, anche
quando qualche creditore non paga. Ogni volta che un’organizzazione di “cocaleros” (nata a
Chapare in Bolivia e dedita alla coltivazione della coca), trasporta cocaina dalla foresta
amazzonica deve pagare loro una tassa di quattro dollari al chilo. Se il narcotrafficante non
paga o viene beccato, automaticamente viene ucciso in modo feroce, plateale, così che funga
da esempio. Posso raccontare di un fatto realmente accaduto. Un trafficante di cocaina di
San Calogero non pagò una partita di coca ai terroristi colombiani, loro si rivolsero a questa
organizzazione e la stessa si rivolse all’ETA in Spagna, che inviò due uomini nel paese del
trafficante. Questi trovarono la casa e la fabbrica e mandarono le foto in Sud America e da lì
le inviarono a questo trafficante di San Calogero, intimandogli che, sapendo dove abitasse,
gli avrebbero distrutto la casa e fabbrica, dopodiché l’avrebbero ucciso. In Sud America la
Colombia è lo stato che maggiormente contrasta il narcotraffico e badate che la Colombia è
il secondo paese al mondo, dopo la Cina, per quel che riguarda la crescita del prodotto
interno lordo. E’ uno degli stati in cui la DEA Americana investe di più e i narcotrafficanti
non fanno più partire i carichi di cocaina dai porti colombiani, ma cercano di farli partire da
sud rispetto a Colombia, Bolivia e Perù, perché i territori risultano meno controllati. Uno di
questi è ad esempio il Brasile, dove la polizia giudiziaria è scarsa se pur di qualità e dove
esiste il più grande porto del Sud America con 35 chilometri di banchine”.

Il Procuratore continua poi spiegandoci come spesso, purtroppo, con la complicità di uomini
corrotti, si riescono ad eludere i controlli nei principali porti ed aeroporti e come la cocaina
arrivi in tanti modi: confusa in dei grossi carichi, in dei container, ingerita da viaggiatori
divenuti trafficanti improvvisati, grazie a cani di grossa taglia o ancora con doppi e tripli fondi
in valigie, mobili ed in alcuni casi, impregnata in abiti di vestiario.
Perché la ‘ndrangheta fa affari in Sud America? Fin dove si estendono i tentacoli della
malavita tra Italia, Europa e Stati esteri?

Voi sapete che la cocaina si produce solo in Colombia, Bolivia e Perù. Posso assicurarvi che
i vertici delle mafie non sono in grado di fare riciclaggio sofisticato, seppur ricchi, il loro
problema è di giustificare la ricchezza. Sono in grado di fare speculazione edilizia, comprare
latifondi per poi renderli edilizi, creare villette a schiera, investire in supermercati o nel
Terziario, ma il mafioso che investe in Borsa io ancora non l’ho visto. Esiste invece il mafioso
che per far riciclaggio sofisticato si serve di professionisti, di commercialisti, di esperti
bancari, che in cambio di denaro sono disposti a farlo. La forma più potente e importante di
riciclaggio da parte delle mafie è il traffico di cocaina. Mentre Cosa Nostra era impegnata in
ostracismi, facendo la guerra allo stato, la ‘ndrangheta con i sequestri di persona comprava
camion, ruspe ed entrava alla grande nel mondo dell’edilizia e nella costruzione delle grandi
opere pubbliche e intanto, intercettando i consumi, mandava in Colombia e Bolivia dei broker
a vivere in Sud America. Questi broker poi lì, hanno messo su famiglia, assolvendo con
l’andar del tempo al compito di comprare coca al prezzo più basso. Qui si rende evidente un
dato che va oltre, quello della credibilità, del prestigio, andando a considerare la ‘ndrangheta
come interlocutore serio, una serietà criminale, una professionalità criminale. La
‘ndrangheta è una delle poche mafie che è arrivata a comprare la cocaina in conto vendita e
produce cocaina in società con i cartelli sudamericani. Non vende al dettaglio, non ha il
controllo delle semplici piazze, vende all’ingrosso a nigeriani e ad organizzazioni criminali
del Nord Africa oppure a organizzazioni criminali locali. Poi la droga arriva al pusher di
strada, il morto di fame, che per avere una dose gratis, su 5 ne vende 4.
A ritroso i soldi ritornano, ma solo il 9% in Sud America, perché queste organizzazioni
investono in Europa, preferiscono investire in zone ricche, sia perché è più facile
mimetizzarsi e sia perché si guadagna di più. Quindi si aggiunge un problema al problema.

C’è una connessione tra narcotraffico e terrorismo?
Oltre al narcotraffico certamente si inserisce il terrorismo in questo contesto. Più volte nelle
indagini incontriamo il terrorista delle Auc (gruppo terroristico paramilitare sudamericano),
che fa affari con la ‘ndrangheta. Una delle nostre indagini più importanti con le Auc è stata
quando abbiamo indagato il capo delle Auc, Mancuso Salvatore, originario della provincia di
Salerno. Questo Mancuso, cresciuto nelle università americane, parlava perfettamente anche
il castigliano, era in affari con la ‘ndrangheta e stava comprando una città, un paese attorno
a Lucca, per trasferirsi durante le trattative tra i terroristi delle Auc e il governo colombiano.
Volevano venire in Italia. Aveva 35 parlamentari colombiani nel suo libro paga, ad un certo
punto l’indagine si è allargata, tanto che abbiamo avuto bisogno di fare intercettazioni in Sud
America. Allora parto per il Sud America arrivo all’aeroporto di El Dorado, ci mettiamo in
questi jeeppòni e mentre arrivavamo in albergo, vedo molte jeep verdi con questi uomini in
divisa militare e pensai ci fosse una qualche parata, di cui non eravamo stati informati.
Arrivati in albergo, noto che, stranamente, erano presenti anche lì. Parliamo allora con la
polizia e con i Magistrati e considerate che anni fa con dei missili terra-aria hanno attaccato
il tribunale di Bogotà uccidendo sei Magistrati. Corrono quindi ancora un grosso rischio,
tanto che a titolo precauzionale, sulla loro porta non vi è scritto il loro nome, ma il numero
della stanza e quando il Magistrato interroga c’è un vetro oscurato, la voce viene cambiata
per ovvi motivi di sicurezza. Bene, arriviamo a fare molti arresti e la DEA americana dopo un
anno e mezzo riesce a catturare Salvatore Mancuso, portandolo a Washington. Io parto per
interrogarlo, entro nel carcere e lui, appena mi vede mi dice: “Noi ci conosciamo, io ero
nell’albergo quella sera quando lei è venuto a Bogotà”; dacché gli chiedo: “ma lei come
faceva a sapere che io ero nell’albergo?”, mi rispose: “volevo vedere chi era questo pazzo che
veniva dall’Italia ad indagare su di me. Il generale dell’esercito colombiano era nel mio libro
paga, il direttore dell’aeroporto di El Dorado era un mio uomo”.

Esiste ancora la ‘ndrangheta del tritolo, che controlla il territorio?
Non esiste ‘ndrangheta se non c’è un territorio, la struttura base è l’estensione del territorio
sulla quale si esercita il potere. Sul piano processuale abbiamo visto come geometri, ingegneri
di queste grandi società e multinazionali del nord, siano scese prima dell’inizio dei lavori per
contrattare con i capimafia dei rispettivi territori, per non incorrere poi in quel rito del tritolo
sulla ruspa o sull’escavatore. Questo è controllo del territorio.
Oggigiorno però vediamo sempre meno quella mafia che aspetta al cantiere la mazzetta, ma
vediamo una ‘ndrangheta che sempre più cogestisce la cosa pubblica, intervenendo nella
gestione e nell’organizzazione della vita politica ed amministrativa di un territorio.
Oggi vediamo che nel mondo della ‘ndragheta il fenomeno estorsivo è sempre più raro, mentre
si sono sviluppate operazioni molto più complesse e raffinate.
E’ organizzata nella grande distribuzione di tutti i beni, dai generi alimentari al cemento. Un
imprenditore mafioso riesce a vendere a prezzi inferiori rispetto a un normale distributore,
riciclando i soldi della cocaina. Le piccole Banche a livello locale spesso sono colluse, le
nomine dei Consigli e degli amministratori sono facilmente corruttibili, ancora di più le
finanziarie, nonostante quest’ultime richiedano più garanzie e concedano prestiti facilmente
con tassi di interesse elevati. Quindi vediamo questi creditori mafiosi che si fanno prestare
soldi da piccoli istituti privati, prevalentemente nel nord Italia. Questi prestiti vengono poi
messi in circolo costruendo attività commerciali anomale, riuscendo a vendere gli stessi
prodotti a un prezzo inferiore sfuggendo così alle normali regole commerciali.

Ricordiamo tutti la cruenta faida di Taurianova, che portò al provvedimento
d’emergenza del 1991, una misura normativa unica nel mondo, che ha permesso lo
scioglimento di più di 300 Comuni a distanza di trent’anni. Qual è la situazione ad oggi?

Io sono forse quello che sta dando più lavoro di tutti alle prefetture e al ministro degli Interni
riguardo allo scioglimento dei Comuni per mafia. Nell’ultimo anno se ne sono sciolti tanti e
purtroppo se ne scioglieranno ancora tanti. I Commissari prefettizi devono avere gli stessi
poteri del Sindaco, se non di più, perché un Sindaco che fa una lista elettorale sa benissimo
chi sono i candidati delle liste e come siano collusi con le mafie. Il Commissario prefettizio
deve quindi avere anche il potere di annullare delle delibere già approvate dalla Giunta
comunale. Noi ci siamo ritrovati in un paesino in provincia di Reggio Calabria, dove il
Comandante dei vigili urbani era la figlia del capomafia. In quel caso, il Commissario
prefettizio si trovò a collaborare con la figlia di un capomafia nei casi di abuso edilizio,
occupazioni di suolo pubblico, eccetera. Di Comuni comunque se ne scioglieranno molti altri,
lì dove non sono espressione di democrazia e volontà popolare.

Dottor Gratteri, nel 2014 lei è stato nominato come componente della task force per
l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata. Nel suo progetto
di riforma declinato in 130 articoli si parla anche di informatica e tecnologia come
innovazioni in campo giudiziario e processuale. Il tanto discusso “processo a distanza”
avrebbe implicazioni anche per quel che riguarda il sovraffollamento delle carceri. In
che modo porterebbe alla risoluzione del problema?

L’ informatica oggi batte i tempi del processo, i costi del processo ed il potere intenzionale
dell’uomo, quindi dell’abuso. Le carceri non sono sovraffollate perché sono piene, ma perché
molte sezioni vengono chiuse per mancanza di personale. In Italia ci sono 44.000 uomini
della polizia penitenziaria e ogni giorno 10.000 di questi vengono impiegati per fare
traduzioni e trasferimenti. Volendo fare un esempio, un detenuto che dal carcere di Tolmezzo
deve venire il giorno seguente a processo presso il tribunale di Catanzaro, parte da Tolmezzo
su di un furgone con 5 uomini ed arriva all’aeroporto di Venezia, sale sull’aereo con 5 uomini
e arriva a Roma, poi da Roma arriva a Lamezia, poi un altro furgone con 5 uomini da
Lamezia lo porta a Catanzaro. Dopo di che, la mattina seguente torna con altri 5 uomini e
così via. Questo “giochino” costa 70 milioni di euro l’anno con il rischio d’ evasione durante
il tragitto ed il rischio che, anche nelle pause d’udienza o in altri momenti, il detenuto possa
mandare richieste di tangenti o minacce di morte all’esterno. Nel progetto di Riforma, la mia
commissione ha previsto che il detenuto stia in carcere a Tolmezzo collegandosi in
videoconferenza al tribunale di Catanzaro, sia come indagato, sia come imputato, sia come
testimone retro connesso o anche se si deve separare con la moglie. Immaginate con 70
milioni di euro quanti uomini sarebbe possibile assumere nella polizia penitenziaria, quanti
nella cancelleria e nella segreteria ogni anno. Mettiamo per esempio che si stia facendo un
processo per bancarotta e vengano sentiti 40 testimoni. Ad un certo punto un giudice viene
trasferito ed un altro giudice si insedia al suo posto, l’ avvocato non dà l’assenso al rinnovo
degli atti e il processo in questo modo ricomincia da capo. I 40 testimoni verranno risentiti
nuovamente in fase processuale, questo vuol dire pagare 2 volte il viaggio di ognuno di essi.
Nella nostra proposta di riforma abbiamo previsto la video registrazione del teste in modo
che, riprendendo l’ esempio di prima, il giudice che va ad insediarsi veda il dvd e nel
momento in cui non ci sia necessità di fare domande inedite, il processo possa andare avanti.

In questo modo, inoltre, l’avvocato che per inciso ha la responsabilità penale del suo cliente,
non potrà tentare di mandare il processo in prescrizione. Per problematiche come il ritardo
di notifica o l’omessa notifica che fanno sì che il processo si rinvii per altri 7 o 8 mesi,
abbiamo previsto l’ introduzione di una PEC (Posta elettronica certificata) per ogni cittadino
maggiorenne. Potremmo stare settimane a far esempi di informatica applicata al processo e
alla giustizia. Attuare queste norme e innovazioni, non vuol dire abbassare il livello di
garanzia, ma vuol dire efficienza, vuol dire risposte, perché non si comprimono i termini di
base, ma si ha la sicurezza che tutte le fasi vadano a buon fine.

Oltre a queste importanti riforme in ambito giudiziario, dove c’è più bisogno di un
cambiamento in Italia? Qual è la sua visione rispetto al livello culturale dei ragazzi
italiani ed all’istituzione scolastica?

In Italia siamo ancora ai fondamentali, prima di parlare di cultura dobbiamo parlare di
istruzione. Non si è saputo creare una scuola a tempo pieno che dia la possibilità alla mattina
di insegnare e imparare italiano, matematica ed altre materie ed al pomeriggio la possibilità di
approcciarsi alla cultura. Stiamo svendendo l’istruzione e le università. Ad oggi le università
italiane non sono competitive con il resto del mondo ed in particolare non sono competitive in
Europa. Perché questo? Perché servono fondi e riforme, tante riforme che ucciderebbero le
baronìe. Possiamo affermare che in Italia non si sta facendo istruzione. Nella stragrande
maggioranza i ragazzi, anche agli esami universitari, non sanno parlare in italiano senza
sbagliare, non sanno scrivere in italiano. I più bravi, scrivono cinque righe senza un punto e
con due virgole. Mi ritrovo spesso a correggere la punteggiatura ad avvocati, colleghi, laureati
in Giurisprudenza e mi rendo conto che oltre ad esser l’allievo a non imparare, anche i
professori troppo spesso non sanno parlare e scrivere in italiano corretto. L’ insegnante deve
tornare ad essere una figura rispettabile e di cultura, deve venir adeguatamente retribuito e
non essere un insegnante a cui si da del “tu”.
La mia missione non è semplice ma sento che oggi forse,dopo decenni di sacrifici, comincio a
intravedere un cambiamento. Insieme alle Forze dell’ Ordine, nel mio ruolo di Procuratore
della Repubblica, sto crescendo e guidando una generazione verso un nuovo pensiero, un
nuovo approccio tecnico di indagine, una nuova filosofia del lavoro.
Questa rivoluzione mentale, presto la faremo anche sul piano giudiziario.

Chiara Immordino Tedesco e Francesco Palladino (c9on la collaborazione del professor Mario Caligiuri