Le Beatitudini nella scelta estrema di una ragazza sincera. Il Vangelo nel film “Il fulgore di Dony”. L’Osservatore Romano “premia” la pellicola di Pupi Avati

E’ destinato a non restare negli archivi ma ad entrare nel giro dei cineforum e dei film d’autore “Il Fulgore di Dony”, il film diretto da Pupi Avati, scritto insieme a Tommaso Avati, trasmesso un paio di settimane fa da Rai Uno e che continua e a far discutere.
La storia del film è quella di un amore adolescenziale, quello tra i due giovanissimo protagonisti Donata, Dony per tutti (Greta Zuccheri Montanari) e Marco (Saul Nanni). Un amore difficile e complicato, un amore ostacolato dai genitori ma allo stesso tempo un amore consapevole, fatto di emozione, cura e riconoscenza. Ma c’è un messaggio importante in questa pellicola, quello delle Beatitudioni evangeliche alle quali dichiaratamente si è ispirato il regista.

Nel cast del film, ad affiancare i due giovani protagonisti, troviamo Lunetta Savino, Giulio Scarpati, Ambra Angiolini, Andrea Roncato e Alessandro Haber.

Ecco l’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano su questo straordinario film

Non è la prima volta che Pupi Avati esplora la vita cristiana, provando a portarne sino in fondo le premesse, quasi a verificare la possibilità che possa essere percorsa sul serio da persone comuni. Il suo ultimo film, Il fulgore di Dony, può essere considerato una sorta di verifica del concetto della santità ordinaria proposto da papa Francesco, con la forza del paradosso calato nelle vite normali di due giovani studenti bolognesi. Lui bello, brillante, amato dalle compagne, lei complicata, introversa, che si sente — ed è — poco attraente.
È ovvio che da un incontro fortuito nasca un amore, non corrisposto, di Dony (diminutivo di Donata) per il bel ragazzo. Ma la vita improvvisamente capovolge tutto: una caduta di Marco, che provoca un imprevisto incontro dei due in ospedale, diventa una tragedia. Marco ne rimane segnato per sempre, leso nella ragione e nel controllo muscolare. È qui che Dony, dopo avere vinto la tentazione di fuga davanti al dolore e alla disabilità mentale, trova il suo ruolo di fedele innamorata che, superando le resistenze della sua famiglia, farà accettare a tutti, al punto di riuscire a sposare Marco.
A un primo sguardo il film sembra rispondere alla domanda se si possa amare un disabile, per di più un disabile al tempo stesso mentale e fisico. La risposta è affermativa, e il regista arriva anche a comunicare, con le ultime scene, che si può persino essere felici in questa situazione per il solo fatto di dare e di ricevere amore.
Per la scelta estrema, per la forza con la quale la sostiene vincendo ogni ostacolo, Dony sembra sorella di quei “folli di Dio” che soprattutto in passato hanno arricchito il patrimonio della santità cristiana. Ma l’abilità del regista, lo stesso del dramma Il papà di Giovanna, adombra anche un’altra possibile interpretazione: con questa scelta — duramente pagata nella vita quotidiana — Dony si sente finalmente scelta e amata da chi ha scelto lei stessa, si sente finalmente bella, si sente finalmente ricca di quel fulgore dal quale all’inizio della storia sembrava crudelmente esclusa. Riaffiora qui la terribile risposta che il regista aveva dato nel film precedente: è così doloroso non appartenere al gruppo dei giovani belli, disinvolti, affascinanti, amati da tutti, che diviene legittimo usare qualsiasi mezzo per uscire da questa situazione.
Ma Dony è quasi una santa, che sa vivere fino agli estremi limiti l’amore che Gesù insegna essere l’unica via di elevazione spirituale per un cristiano, oppure è una giovane piena di dolorosi complessi che per guarire accetta una terapia radicale ma per lei, se pure con una soluzione estrema, soddisfacente? L’interesse del film sta nella capacità di dominare questa domanda, alla quale ogni spettatore è chiamato a rispondere.

Lucetta Scaraffia per l’Osservatore Romano