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Processo 'Tre moschettieri', riconosciuta l'aggravante del “metodo mafioso”

La decisione della Corte di Appello di Bari

"Le recenti sentenze confermano, anche sul piano giudiziario, l’esistenza e la virulenza della mafia garganica, creano l’intelaiatura per delinearne a pieno i contorni e la struttura ma soprattutto rappresentano un importante caposaldo per dare la giusta lettura ai fenomeni criminali che opprimono quella fetta importante di territorio". E' il commento  dei Carabinieri del Comando provinciale di Foggia alla decisione dello scorso 15 febbraio della Corte di Appello di Bari, che ha riformato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Foggia il 16 marzo 2015 all’esito del processo scaturito dall’indagine convenzionalmente denominata “Tre Moschettieri”

LA NOVITA'. L'indagine venne condotta dai Carabinieri del Comando Provinciale di Foggia sotto la direzione della Procura della Repubblica – DDA di Bari e ora la Corte d'Appello ha rideterminato la pena inflitta a tre dei quattro imputati (il principale imputato, Angelo Notarangelo è stato assassinato a Vieste il 26 gennaio 2015 in un agguato mafioso). L’elemento di novità più importante consiste nel riconoscimento, a carico di tutti gli indagati, della circostanza aggravante dell’avere agito con metodo mafioso (art.7 della L. 203/91), fin da subito ipotizzata dagli inquirenti e condivisa dal GIP che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare, ma poi negata nella sentenza di primo grado. 

I REATI. La Corte di Appello, accogliendo l’appello della Direzione distrettuale Antimafia di Bari, ha inflitto a Luigi Notarangelo, cugino di Angelo, la pena di anni 7 di reclusione ed euro 2.600 di multa (6 anni in primo grado); a Giuseppe Notarangelo, fratello di Angelo, la pena di anni 6, mesi 8 ed euro 2.000 (6 anni in primo grado); a Girolamo Perna, la pena di anni 3 e mesi 4 ed euro 1.000 (in primo grado 5 anni), previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante. I tre erano stati arrestati, unitamente ad Angelo Notarangelo detto “Cintaridd”, già capo dell’omonimo clan operante nell’area garganica, la notte del 19 luglio 2012 su ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Bari su richiesta di quella Procura Distrettuale Antimafia, nell’ambito dell’indagine convenzionalmente denominata “Tre Moschettieri”.

LE INDAGINI. Nella circostanza, Angelo Notarangelo si trovava recluso presso la casa circondariale di Foggia in quanto già arrestato all’esito delle indagini “Medioevo” e “Slot Machine”, sempre dei Carabinieri di Foggia, anche in quel caso con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni di alcuni imprenditori turistici viestani, che avevano finalmente avuto il coraggio di sporgere denuncia. È la seconda volta in poco tempo che la magistratura barese riconosce, in sede di appello, l’aggravante della mafiosità nell’ambito della malavita viestana. Nel luglio 2017, infatti, è stato condannato a 7 anni e mezzo di carcere Giambattista Notarangelo, cugino del defunto boss Angelo, nell’ambito del processo “Medioevo”, riguardante il racket delle estorsioni ai danni di alcuni imprenditori turistici viestani, commesse avvalendosi del metodo mafioso. Anche in questo caso la Corte di Appello ha ritenuto esistente l’aggravante di mafia esclusa dal giudice di primo grado.

IL PROCESSO REMAKE. E’ di pochi giorni fa, inoltre, un’altra importante decisione che riconosce l’aggravante di mafia nell’area garganica: si tratta della sentenza emessa dal Tribunale di Foggia, nell’ambito del processo “Remake”, a carico di Gennaro Giovanditto e Michele Scanzano, condannati rispettivamente alla pena di anni 8 e mesi 6 di reclusione e alla multa di 8.500 euro e alla pena di anni 8 di reclusione e alla multa di 8.000 euro. I due sono stati riconosciuti colpevoli dei reati di tentata estorsione per avere, in concorso tra loro, costretto mediante minaccia un’impresa che aveva stipulato un contratto quinquennale con il Comune di San Nicandro Garganico per la gestione dei rifiuti solidi urbani, a consegnare in loro favore una somma di denaro a titolo di tangente, senza riuscire nell’intento per il fermo rifiuto opposto dalla vittima, nonché di avere indebitamente utilizzato carte di credito falsificate per effettuare presso numerosi esercizi commerciali una serie acquisti di beni e servizi di rilevante importo economico. Inoltre gli stessi sono ritenuti colpevoli del reato di estorsione per aver costretto, mediante minaccia, un imprenditore a consegnare loro la somma di 6.000 euro, mediante quattro versamenti rateali di 1.500 euro. Anche in questo caso, per entrambi i reati estorsivi è stata riconosciuta dai giudici di primo grado l’aggravante di aver adoperato metodi mafiosi, contestata dalla DDA di Bari con riferimento ai tempi, alle modalità e al contesto nel quale si realizzava la condotta illecita oltre che in considerazione delle qualità personali di Gennaro Giovanditto, già condannato con sentenza definitiva alla pena dell’ergastolo per mafia, omicidio e altro, in qualità di appartenente al Clan Li Bergolis. 

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di Redazione 


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