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Redazione

Il chiostro aperto di San Mercuriale fra (troppa) luce e molte ombre

Il chiostro razionalista di S.Mercuriale ha fatto discutere sin dalla sua apparizione, nel 1941

La prima contraddizione è già nel nome. Chiostro, dal latino “claustrum”, significa cortile interno di chiesa o convento delimitato da un porticato. A San Mercuriale, nel 1941 è apparso un ibrido volutamente aperto su due lati. Il disegno di revisione razionalista di Forlì città del Duce, osò toccare un monumento, qual è il complesso abbaziale di piazza Saffi, risalente nientemeno che al Medioevo. Per avere un’idea di come fosse il chiostro di San Mercuriale prima del “risanamento”, basta osservare la splendida foto della basilica risalente al primo decennio del XX secolo. La facciata è ancora barocca per i rimaneggiamenti subiti fra il 1646 e il 1781: sarà riportata all’originalità romanica solo nel 1921, su progetto degli ingegneri Cesari e Pantoli. La novità più eclatante di quell’intervento è rappresentato dalla realizzazione del rosone, che prese il posto del lunettone. Per quanto riguarda il chiostro, la decisione di mettere in relazione le piazze Saffi e XX Settembre in vista dell’edificazione del nuovo Palazzo di Giustizia, pare sia stata suggerita dallo stesso Benito Mussolini. Dalle pieghe della cronaca emerge un illuminante articolo di monsignor Bruno Bazzoli, pubblicato su “Il Momento” del 3 giugno 1997.

L’ex abate, parroco di San Mercuriale dal 1952 al 1994 e scomparso il 25 luglio 2006 all’età di 91 anni, rievoca tutte le tappe della questione scatenata dallo sventramento del chiostro medievale. “Nel 1939 Mussolini ne decise l’apertura come conquista del popolo”. La prima vittima di cotanta volontà di massa fu proprio il parroco del tempo, monsignor Adamo Pasini. Il grande storico e cultore d’arte, “oltre al danno inevitabile alla vita parrocchiale – scrive don Bazzoli - subì anche quello alle opere d’arte”. Chiaro il riferimento alle 30 lunette sulla vita di Giovanni Gualberto, fondatore dei Vallombrosiani, affrescate nei primi anni del ‘600. “I dipinti – scrive Ulisse Tramonti nel suo “Itinerari d’architettura moderna” - furono staccati e trasportati su centine di legno e lastre di eternit per poter essere restaurati”. Ritornati nella posizione originale al termine dei lavori, si deteriorarono in tempi brevissimi a causa dell’innaturale esposizione alle intemperie. Monsignor Bazzoli riuscì a salvarne una ventina trasferendole in chiesa. Il loro degrado era talmente avanzato, che monsignor Quinto Fabbri, parroco di San Mercuriale dal 1995 al 2007, le riavviò a nuovo e difficile restauro. Del vero “claustrum” vallombrosiano rimane solo la prima fila del triplice colonnato. Il 30 agosto 1952, la Diocesi ritornò proprietaria di tutto ciò che non fosse piano di calpestio, rimanendo al Comune “l’assoluta proprietà della parte posta al pian terreno”, e pertanto ogni potere circa la limitazione o meno dell’accesso al chiostro.

Ritorniamo allo scritto di don Bazzoli: “Nel 1957, il ministro acconsentì all’intervento di chiusura, su progetto di Sergio Selli, inviando un contributo di 650.000 lire. Sarà la stessa Amministrazione comunale di Forlì, nella seduta consiliare del 9 marzo 1959, a bocciare il tutto: determinante fu il voto negativo della componente social-comunista. Uscì allo scoperto anche un assessore repubblicano, sostenendo che “il popolo forlivese ha il diritto di passare dove vuole”. Il denaro già erogato dovette essere restituito a Roma. L’attuale parroco don Enrico Casadio è recentemente ritornato sulla necessità di preservare il monumento, almeno di notte, con una cancellata artistica. 

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