La sconfitta dell’ISIS

Le notizie dalla Siria non lasciano dubbi: l’esercito di Assad ha riconquistato i quartieri nord di Damasco, da sette anni in mano ai ribelli della Jihad, affermando così il suo controllo sulla capitale e principale città siriana, ed estendendolo su ormai il 60% del Paese e sull’80% dei suoi abitanti.

Chi ha avuto la pazienza di leggere queste note, sa che era un risultato largamente previsto. Ma non ci voleva molto a farlo: da una parte c’era un regime relativamente compatto e militarmente forte (gli Alauiti al potere sono una casta militare), dall’altra un coacervo di ribelli senza nessuna coesione e, spesso, in aspra lotta tra loro. Da un lato, a favore di Assad, il fermo ed efficace appoggio di russi e iraniani, disposti a impegnarsi pesantemente sul terreno. Dall’altro, l’incerta e sporadica politica di alcuni Paesi occidentali (poco disposti però a inviare truppe sul terreno) e della Turchia, quest’ultima più interessata a reprimere le aspirazioni indipendentiste dei Curdi che ad abbattere l’estremismo islamico.

Come penso e scrivo da tempo, Stati Uniti, Francia e Inghilterra (per fortuna l’Italia no) hanno commesso sin dal primo momento l’enorme errore di non comprendere la realtà, di chiudere gli occhi al fatto che la vera rivolta contro il regime di Assad, dopotutto laico e non terrorista, era l’estremismo islamico dell’ISIS e che Assad era il male minore e di ostinarsi nell’illusione di sponsorizzare e armare gruppi e gruppettini di supposta vocazione democratica e di compiere episodiche, anche se spettacolari, azioni aeree, tanto per dimostrare di esistere.

La vittoria di Assad e dei suoi alleati dovrebbe facilitare la fine di una tragedia durata sette anni, con centinaia di migliaia di morti, danni materiali tremendi e milioni di rifugiati. Ma la strada non è ancora del tutto spianata. Una parte del Paese resta ancora occupata, la contesa tra Curdi e Turchi, che può portare questi ultimi a intervenire più a fondo, è aperta e grave, e pesano le preoccupazioni  israeliane (non certo campate in aria) per una forte e minacciosa presenza militare iraniana nella regione, che può portare Israele a pericolose azioni di forza.

Insomma, gli elementi per un incendio maggiore non sono scomparse. In definitiva, una soluzione, se ci sarà, dipenderà, non certo dalla politica erratica di Trump, o dalle velleità franco-britanniche, ma dalla volontà e dalla capacità di Putin, che si è dimostrato finora un giocatore serio e determinato. L’Occidente pagherà il prezzo della sua insipienza, consegnando la zona all’influenza predominante della Russia e a una pericolosa presenza iraniana, il cui rischio è aggravato dalla sciagurata decisione di Trump di far saltare l’accordo sul nucleare. Ma pare che ci sia ormai poco da fare per evitarlo.

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