High Flying Bird Recensione, l’NBA tra lockout, ideali e razzismo

High Flying Bird

Un film sul basket dove non si vede nessuno (o quasi) giocare a basket. Se nel nuovo film esclusiva Netflix High Flying Bird vi aspettavate la faccia più romantica, salvifica ed epica della pallacanestro in stile Coach Carter, rimarrete delusi: la nuova pellicola diretta da Steven Soderbergh (Oscar nel 2001 con Traffic) è un continuo e verboso sproloquio su accordi economici, doppi giochi, strategie e tutto quello che riguarda il “gioco sopra il gioco” come lo definisce l’agente sportivo Ray Burke (André Holland) riferendosi alla sovrastruttura chiaroscura e semitrasparente che muove le fila di uno degli sport più seguiti in USA e nel mondo.La cornice narrativa è quella del lockout, che nell’NBA equivale ad una sorta di sciopero sportivo scatenato, spesso e volentieri (come in questo caso), dal mancato raggiungimento di un accordo economico tra i soggetti che muovono le fila del tutto: lega, tv, proprietà e associazione giocatori. Ma il contesto di crisi è solo un pretesto per il regista – qua lontano anni luce dai riflettori hollywoodiani di Ocean’s Eleven & Co – per andare a toccare, e affondare, il tema razziale, giustamente nella sua declinazione più strettamente sportiva. Ma non solo. Ecco allora la presenza puntuale, e quasi totemica, del vecchio e bonario allenatore di periferia Spencer (Bill Duke) che a chiunque parli di schiavitù e discriminazione razziale in sua presenza, o nel suo campo, chiede la frase lasciapassare “amo il Signore e tutti i suoi figli neri”.

High Flying Bird

Davide contro Golia

Sfaccettato, a tratti indefinibile e sfuggente, costantemente in apparente affanno ma comunque sicuro di sé e rivoluzionario. Il protagonista del nuovo film firmato Soderbergh è il pilastro che, da solo, sorregge l’intera impalcatura narrativa che, seppur nella sua linearità convince, faticherà – e non poco – a tenere incollato alla poltrona il telespettatore italiano che del basket americano può contare (mediamente) su qualche reminiscenza del mito di Michael Jordan e poco altro. Figuriamoci se ci si sposta su ambiti più commerciali e istituzionali del movimento. Per certi versi High Flying Bird può essere interpretato come una specie di moderna lotta tra Davide e Golia, dove il piccolo ma sagace procuratore coglie l’occasione del lockout per provare a “rubare il gioco” dalle mani dei grandi che ne detengono oramai il controllo totale. E, solo per un momento, anche grazie all’effetto dei social (tema ricorrente anche questo nel nuovo film di Soderbergh) si riesce ad intravedere quel progetto – tra l’ambizioso e il puerile – di riportare alla sua più pura e naturale forma il basket, non più un prodotto ma un’esperienza reale che “torna in strada”, riconsegnandosi come patrimonio di tutti. Giocatori compresi. Come Unsane, anche High Flying Bird è stato interamente girato con iPhone 8. Un po’ si nota (colori “esplosivi” e inquadrature imperfette) un po’ no per merito di una strategia di ripresa mirata nel saper sfruttare lo strumento – lo smartphone in questo caso – nel modo più coerente e intelligente possibile a quella che è la sua natura.

High Flying Bird funziona senza intoppi nel raccontare e contrapporre visioni di ammirazione e idealizzazione del basket – su tutti quella romantica e ingenua del mite Spencer – all’approccio più commerciale e imprenditoriale di chi, invece, con la pallacanestro vuole tornare il prima possibile a far girare una giostra da miliardi di dollari all’anno. La regia di Soderbergh zoppica, invece, nel tratteggiare la sfera più umana, relazionale e personale dei personaggi, che quasi mai vengono proiettati al di fuori della loro sfera sportiva (e di massimi sistemi), se non per qualche sporadico sconfinamento e una poco più che abbozzata liaison amorosa. La storia di High Flying Bird è (volutamente) depersonalizzata, distaccata, asettica, filtrata da un taglio quasi documentaristico (ci sono anche alcuni intermezzi con interviste a giocatori professionisti) che rallenta il ritmo di un montaggio già non particolarmente vivace e serrato, ma che doveva evidentemente essere così. Soderbergh sacrifica ritmo e intrattenimento sull’altare di una narrazione spiccatamente di denuncia.