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Eventi di S. BIANCHI del 28/12/2017 09:06:46
Pablito e il pallone d’oro

 

Non è stata una storia lineare quella tra la Juventus e Paolo Rossi: a nove anni gioca nel Santa Lucia, una piccola società calcistica di Prato, la sua città, a dodici anni va alla Cattolica Virtus e a sedici approda già alla Juventus, ma solo dopo un intervento personale di Allodi sulla famiglia, scottata in precedenza dalla scarsa fortuna avuta a Torino dal fratello Rossano. Sotto la Mole, iniziano presto i problemi: una sequela inimmaginabile d’infortuni, che, in due anni, richiedono addirittura tre operazioni di menisco. Nonostante tutto, nel 1974, c’è l’esordio in prima squadra nella Juve di Vicpalek, pur se in Coppa Italia, con Zoff, Gentile e Causio (Cesena-Juventus zero a uno, rete di Musiello); solo altre due presenze nella stagione successiva, poi in prestito al Como, ove continua a trovare poco spazio.

Nell’estate del 1976, Boniperti lo manda in comproprietà al Vicenza, per valorizzarlo alla scuola di Giovan Battista Fabbri, per tutti “Gibì”. Il tecnico biancorosso, oltre ad essere per Paolo un maestro di vita, gli crea le basi della celebrità, spostandolo di ruolo: da ala a centravanti. La sagacia professionale di Fabbri dà i suoi frutti: un Rossi titolare inamovibile e capocannoniere della Serie B, porta il Vicenza alla promozione in Serie A. Al mercato estivo, la Juventus gli preferisce Virdis e Paolo resta a Vicenza, dove, la stagione seguente, a suon di doppiette, al secondo posto del Vicenza nella corsa-scudetto, proprio alle spalle della Juventus. La nuova vittoria in classifica dei cannonieri, stavolta nella massima serie, convince Bearzot a convocarlo per i mondiali in Argentina, dove gli Azzurri si qualificano a un insperato quarto posto, dopo aver, a tratti, esibito gran calcio.

Quell’estate Mundial vede anche la guerra di mercato tra Boniperti e il presidente vicentino Giussi Farina: non averlo riscattato l’anno precedente ha fatto lievitare il costo del cartellino, e in mancanza d’accordo sulla valutazione del centravanti, è necessario il ricorso “alle buste”, in cui Farina indica il valore globale del giocatore a oltre cinque miliardi. L’atto di coraggio del presidente biancorosso fu però negativo per le sue casse societarie: Rossi, che nonostante un nuovo infortunio segnò quindici reti, non riuscì a evitare la retrocessione vicentina. Rifiuta il passaggio al Napoli per motivi personali e si accasa al Perugia, che paga il trasferimento biennale in prestito oneroso di cinquecento milioni a stagione, garantiti per quattro quinti dalla prima sponsorizzazione calcistica in Italia, tra l’altro frutto di una società creata ad hoc dall’astuto D’Attoma, presidente perugino. Quattordici le reti segnate tra campionato e Coppa UEFA, ma la stagione 1979/80 è quella che macchia la carriera di Rossi nel cosiddetto “scandalo del totonero”: il solito pentito in cerca di sconti di pena lo coinvolge nel processo sportivo (sommario, come il solito), per una partita che forse altri hanno concordato per il pareggio (Avellino-Perugia), ma in cui lui segna ben due reti, una addirittura al primo minuto.

La squalifica finisce nell’aprile 1982, ma Boniperti non ha mai smesso di seguire Paolo: nel marzo 1981 “si era fatto restituire” il centravanti da un Farina più malleabile, che ripianava il deficit di cassa, riavendo indietro quanto aveva sborsato nell’asta per Rossi. Nel frattempo, Rossi si sta già allenando con i compagni bianconeri e il 2 maggio è prontissimo per scendere in campo (Udinese-Juventus, cinque a uno esterno, con il gol del tre a uno siglato da Rossi), come nelle due domeniche successive, in casa col Napoli e a Catanzaro. Nell’ultima di campionato entra nell’azione della rete decisiva, iniziata da una grande sgroppata di Marocchino sulla destra, cross, colpo di testa di Rossi in anticipo sul primo palo, respinta del legno e tiro di Fanna respinto di mano di Celestini sulla linea, per il calcio di rigore trasformato da Brady. Con tre sole gare e una rete mette la firma sul suo primo scudetto bianconero e conquista la convocazione di Bearzot per i Mondiali in Spagna. Che va a vincere da capocannoniere della manifestazione (Scarpa d’Oro) con tre gol al Brasile, due gol alla Polonia e un gol, in finale, alla Germania. E’ per l’impresa spagnola che, il 28 dicembre 1982, va a Parigi a ritirare il Pallone d’Oro come Pablito: in Brasile lo ricorderanno sempre così, col soprannome coniato da Bearzot.

Pablito resta a Torino altri tre anni: con altre centotrentacinque presenze e altre quarantatré reti conquista una Coppa Italia e il titolo di capocannoniere della Coppa dei Campioni (1983), Scudetto, Coppa delle Coppe e Supercoppa UEFA (1984) e la Coppa dei Campioni (1985). A Paolo Bruschi (“Paolo Rossi, l’uomo che fece piangere il Brasile”) si racconta così: «Forse sono stato il primo centrattacco, rapido e svelto, che aveva nelle intuizioni la sua dote principale, unita a una tecnica sopraffina. Uno dei segreti del mio successo è stato quello di giocare intelligentemente, pensando sempre cosa fare un secondo prima che mi arrivasse il pallone, proprio per supplire alla mancanza di qualità fisiche eccelse. Giocare sull'anticipo era una mia grande prerogativa, cercavo sempre di rubare il tempo al mio avversario, sfruttando le mie doti di opportunista: in area di rigore cercavo sempre di sfruttare ogni piccolo errore dei difensori, facendomi trovare nel posto giusto al momento giusto». Purtroppo per lui, dopo il Mondiale, tornato alla Juventus, per Trapattoni divenne non più “il centravanti”, ma uno dei modi per aprire varchi nelle difese avversarie, varchi in cui potessero incunearsi i nuovi acquisti Platini e Boniek. Costretto a giocare in una posizione a lui meno congeniale per liberare compagni al tiro o all’entrata in area, inizia a segnare molte meno reti di un tempo e s’intristisce per il sentirsi meno valorizzato, con la compressione, di fatto, a un ruolo più limitato. Forse anche per questo, l’apice della sua tormentata carriera sono rimasti quei minuti del 5 luglio 1982, al Sarrià di Barcellona, tra il quinto e il settantaquattresimo di Italia-Brasile. Quei minuti fantastici in cui Paolo Rossi, detto Pablito, fu l’arma letale che mise al tappeto il minaccioso Brasile.

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