San Francesco, l'umanesimo di Gesù e la perfetta letizia nell'omelia del cardinale Betori

Giuseppe Betori

In occasione della Festività di San Francesco D'Assisi, Patrono d'Italia, il cardinale di Firenze Giuseppe Betori ha tenuto un'omelia presso la Basilica di Santa Croce. Nelle parole del cardinale il richiamo all'umanesimo di Gesù e alla "perfetta letizia" che viene dalla scelta dell'umiltà.

"La ricchezza della figura di San Francesco non consente alcuna lettura riduttiva. Ne è eco anche l’ampiezza di tematiche che la liturgia ci propone nelle letture bibliche. Provo a trovare un filo conduttore fondandomi sulla stessa esperienza di vita del nostro santo, che come sappiamo ha la sua svolta di conversione nell’incontro con Cristo che gli si propone nella carne martoriata del povero, del lebbroso. Ne dà testimonianza con le parole che aprono il suo testamento: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che ni sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (Fonti Francescane, 110). Se la testimonianza di santità di Francesco risplende nella Chiesa per la sua singolare conformazione a Cristo, fino ad avere riprodotte nel suo corpo le ferite stesse del Crocifisso, questo è l’esito ultimo di un cammino che inizia da questo incontro con Cristo nel volto e nella carne dei poveri. Un richiamo che così spesso risuona nell’insegnamento del nostro Papa Francesco. Ricordiamo le parole che ci ha detto nella nostra cattedrale due anni fa: «Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: “Voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda» (Papa Francesco, Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2017). San Francesco scoprì il volto di Cristo che lo guardava nel volto dei lebbrosi e da qui iniziò il cammino della penitenza, che lo staccò dal peccato e mise nel suo cuore la dolcezza. Su questa capacità di incrociare lo sguardo dei poveri si gioca la credibilità della nostra Chiesa e l’efficacia del suo annuncio. Dall’incontro scaturisce la conformazione a Cristo che, se per Francesco d’Assisi prese la forma visibile delle stimmate, anche per noi non può fare a meno della condivisione della sofferenza e della croce. Non perché inseguiamo una visione doloristica della vita, ma perché sappiamo che il confronto con il male e la conseguente sofferenza fa parte del nostro stare nel mondo con responsabilità. Sarebbe pura illusione pensare che la nostra fedeltà al Vangelo possa realizzarsi senza affrontare il confronto con il mistero del male che attraversa la storia e senza prendere sulle nostre spalle la croce, quella nostra e quella dei tanti sofferenti del mondo. Con Paolo e con Francesco noi condividiamo la fede che per essere nuova creatura occorre essere crocifissi per il mondo, segnando una rottura totale con i miti del benessere, del potere, dell’avido possesso, della ricerca dei piaceri che avvelenano la mentalità corrente. Questo non rende amara la nostra vita, perché la priva di qualcosa, ma la purifica orientandola verso ciò che davvero la edifica e la realizza nella sua autentica vocazione. Qui ci viene in soccorso la pagina del vangelo, che esprime in mirabile sintesi i caratteri del Francesco totalmente assimilato a Cristo, fatto piccolo, per raggiunge la misura di quel Dio che si è svuotato, annientato per farsi uomo, e in questa piccolezza trova la dolcezza e il ristoro che vengono dalla mitezza e dell’umiltà. Troviamo scritto nello Specchio di perfezione: «Diceva pertanto il beato Francesco che Dio volle e rivelò a lui che i frati si chiamassero “minori”, perché questo è il popolo povero e umile, che il Figlio chiese al Padre suo. È di questo popolo che il Figlio stesso di Dio dice nel Vangelo: “Non temete, o piccolo gregge, poiché piacque al Padre vostro dare a voi il regno”. E ancora “Quello che avrete fatto a uno dei miei fratelli minori, lo avete fatto a me”» (Fonti francescane, 1710).

Quel che ci è chiesto per entrare nell’orizzonte che Gesù ci chiede e che Francesco d’Assisi testimonia è abbandonare ogni pretesa di dominio e di possesso e prendere sul serio la promessa di gioia, di “perfetta letizia” direbbe san Francesco, e di consolazione che ci viene dallo scegliere la povertà e l’umiltà, nei rapporti tra noi e soprattutto in quelli verso il mondo. Torno ad attingere alle parole che il Papa ha detto a Firenze: «“Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49)» (Papa Francesco, Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2017). Questo appello alla minorità non va però confuso con un venir meno alla nostra presenza nella Chiesa e nella società, non significa un ritirarsi in un’ambigua interiorità narcisistica. Al contrario, esso è il presupposto di una presenza più efficace perché più impregnata dei principi evangelici. Ce lo ricorda la prima lettura, l’esaltazione che il libro del Siracide fa del sommo sacerdote Simone e che la Chiesa in questa festa prende a prestito per illuminare il ruolo che Francesco d’Assisi ha avuto per la Chiesa stessa e per il nostro Paese. Egli con la sua opera ha edificato e fortificato la Chiesa in tempi travagliati, ma l’opera sua e dei suoi frati è stata un seme che ha fortificato e rinnovato la stessa convivenza degli uomini, dando un’anima alla trasformazione sociale delle città e orientandola in senso più umano. La maggiore fedeltà a Cristo si traduce nella maggiore fedeltà al volto evangelico della sua Chiesa e alla radice umanistica della società. Di ambedue questi traguardi dobbiamo essere alla ricerca anche oggi e la testimonianza di Francesco ci illumina e ci sprona".

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