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Esteri

Iran, la svolta di Trump "terremota" le alleanze

AFP/Getty Images
AFP/Getty Images 

Plaude Israele. Lo segue a ruota l'Arabia Saudita e il fronte sunnita, con la pesante eccezione della Turchia. Si mobilita il mondo sciita mentre l'Europa viene di nuovo stretta all'angolo. Lo "strappo" di Donald Trump sul nucleare iraniano è destinato a cambiare il volto del Grande Medio Oriente e anche le relazioni euroatlantiche. La sfida a Teheran chiama in causa la Russia di Putin, alleata dell'Iran nella partita siriana, e rilancia la sfida tra due sovranismi nazionali (quello dell'America di Trump e della Russia dei "zar Vladimir) su scala planetaria. La questione del nucleare è, sotto questo profilo, un dettaglio, la leva per scardinare l'idea di fondo che sottintendeva l'accordo, fortemente voluto da Barack Obama e dall'Europa, raggiunto dal Grippo 5+1: puntare sull'Iran del presidente riformatore Rohani come soggetto stabilizzatore di un'area di crisi che va dalla Siria e Iraq all'Afghanistan passando per lo Yemen e il Nord Africa.

Ora, quella logica viene ribaltata e l'Iran diviene, nello schema di The Donald, il perno del nuovo "Impero del male" del Terzo Millennio. La red line è stata tracciata. La frontiera indicata. E le tradizionali alleanze terremotate. Come quella che tra Europa e Usa. Trump non ha mai nascosto di considerare l'Europa come entità politica sovranazionale un ingombro, una nullità. L'inquilino della Casa Bianca predilige gli accordi bilaterali e quando ha dato un consiglio alle varie cancellerie del Vecchio Continente, quel consiglio, interessato, era di seguire la linea traccia dalla Brexit. Nella logica sovranista gli organismi sovranazionali – siano essi le Nazioni Unite, l'Ue o la Nato – sono per i falchi dell'amministrazione Trump, con l'eccezione del sempre più isolato segretario di Stato, Rex Tillerson, un peso, un costo, qualcosa che esiste ma su cui non vale la pena puntare.

L'esatto contrario di quel multilateralismo evocato, e solo in parte praticato, da Obama e che vede uno dei suoi risultati più significativi proprio nell'accordo del "5+1" con Teheran. E in questo ribaltamento di strategia ad affondare è l'Europa e, nell'Europa, quei Paesi che avevano e hanno la più ricca "diplomazia degli affari" con l'Iran: Italia, Francia e Germania. Si spiegano così le primi reazioni europee allo strappo di Trump. Per il premier italiano Paolo Gentiloni "preservare l'accordo sul nucleare con l'Iran corrisponde a interessi di sicurezza nazionali condivisi". In una nota Gentiloni dice che "l'Italia prende atto della decisione del Presidente Trump di non rinnovare la certificazione dell'adempimento da parte di Teheran, e si unisce alla preoccupazione espressa dai Capi di Stato e di Governo di Francia, Germania e Regno Unito per le possibili conseguenze". Di certo, per l'Italia sarebbero conseguenze gravissime, visto che Trump ha fatto sapere che chiederà agli alleati europei di sostenere eventuali nuove sanzioni contro il regime iraniano. In ballo, è bene ricordarlo, ci sono 30 miliardi di euro di affari italiani in Iran.

Quanto alla Francia, l'Eliseo si è affrettato a far saper che il Emmanuel Macron, ha avuto un colloquio telefonico con l'omologo iraniano Hassan Rohani. Nella telefonata si è parlato, fra l'altro, di "una visita in Iran del presidente francese, su invito del presidente Rohani". Si tratterebbe del primo viaggio di un capo di Stato francese in Iran dal 1971. Fonti iraniane precisano che l'invito sarebbe stato fatto per il 2018. Un messaggio indirizzato alla Casa Bianca. Dello stesso tenore le reazioni di Berlino e Londra. La Germania è furiosa. Se gli Stati Uniti pongono fine all'accordo sul nucleare iraniano o reimpongono le sanzioni a Teheran, l'Iran potrebbe sviluppare armi nucleari e sollevare il pericolo di una guerra vicino all'Europa. È l'avvertimento lanciato dal ministro degli Esteri e vice cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel, ai microfoni della radio Deutschlandfunk.

Secondo il ministro di Angela Merkel, Trump ha mandato un "segnale difficile e pericoloso" in un momento in cui l'amministrazione Usa sta già gestendo la crisi nucleare con la Corea del Nord. "La mia grande preoccupazione è che quanto sta accadendo in Iran o con l'Iran dalla prospettiva degli Stati Uniti non resterà una questione iraniana, ma molti altri nel mondo prenderanno in considerazione l'ipotesi di procurarsi armi nucleari visto che questo tipo di accordi viene distrutto", ha detto Gabriel. E ha proseguito: "A quel punto i nostri figli e nipoti cresceranno in un mondo molto pericoloso". Ma a The Donald poco o nulla interessa delle reazioni europee, semplicemente le aveva messe in conto, ritenendo peraltro, e purtroppo i fatti gli danno fin qui ragione, che l'Europa parla ma non agisce e quando agisce sullo scacchiere internazionale parla 28 lingue diverse. "Quello con l'Iran sul nucleare è stato davvero un ottimo accordo che ha evitato una guerra e salvato vite e dovrebbe essere sostenuto da tutti", incalza Susi Snyder, presidente dell'Ican, l'organizzazione per il bando alle armi nucleari, premio Nobel per la Pace 2017. "L'Aiea ha detto che l'Iran sta facendo tutto quello che deve fare in base all'accordo e "dobbiamo avere fiducia degli esperti", ha aggiunto Snyder a Roma per ricevere il premio Archivio Disarmo.Ma Trump è di avviso opposto.

E poi, altri sono i sostegni su cui l'Amministrazione Usa conta. E quelli sono subito arrivati. Prima da Gerusalemme e subito dopo da Riyadh. L'Arabia Saudita si è schierata a favore della posizione sull'Iran presa dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. A riportarlo è l'agenzia stampa saudita, SPA. In un comunicato del Regno saudita si legge che l'Iran ha sfruttato i benefici economici derivanti dalla sospensione delle sanzioni e li ha usati per continuare a destabilizzare la regione, specialmente attraverso il suo programma di sviluppo di missili balistici. Nel Medio Oriente, Trump ha scelto. E ha scelto di sostenere la visione e gli interessi dell'Arabia Saudita e del fronte sunnita messo in piedi dai petrodollari del Golfo e dalle ambizioni di potenza regionali di Paesi strategici quali sono l'Egitto di al-Sisi e la Turchia di Erdogan. Gli effetti di questa scelta di campo si faranno subito vedere in Siria e Iraq: sul primo fronte, gli Usa hanno scelto la frantumazione dello Stato unitario siriano, convinti che il pericolo maggiore da sventare sia un rafforzamento della dorsale sciita Baghdad-Damasco-Beirut. L'asse su cui ha puntato decisamente Teheran, investendo uomini e mezzi in Siria per rafforzare il regime alawita di Bashar al-Assad, oltre che fornendo armi agli alleati sciiti libanesi di Hezbollah. Alla luce delle decisioni annunciate ieri da Trump, acquistano ancor più valore le minacciose affermazioni di Mohammed Ali Jafari, il generale a capo dei Guardiani della Rivoluzione, la più potente forza di sicurezza interna ed esterna iraniana. Nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero approvare nuove sanzioni nei confronti dell'Iran, il comando militare Usa in Medio Oriente "dovrebbe preoccuparsi di trasferire le sue basi regionali a un raggio di 2mila chilometri di distanza dai missili iraniani", aveva sostenuto Jafari durante il consiglio strategico dei Pasdaran.

Jafari, durante il suo intervento, aveva aggiunto che se Washington, annullando il trattato, inserirà i Guardiani della Rivoluzione nella lista delle organizzazioni considerate terroristiche), i suoi uomini "considereranno l'esercito americano in tutto il mondo, e soprattutto in Medio Oriente, come Daesh". Il paragone con l'autoproclamato Stato islamico è particolarmente significativo perché i militanti sunniti dell'Isis rappresentano per l'Iran, i cui abitanti sono per la maggioranza sciiti, una minaccia reale che, lo scorso 7 giugno, stata in grado di portare a termine un attacco al parlamento di Teheran e al mausoleo di Ayatollah Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Jafari è uomo vicino alla guida spirituale dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, punto di riferimento dei potenti Pasdaran e dell'ala più oltranzista del clero sciita. Le scelte di Trump rafforzano la componente "muscolare" del regime iraniano mettendo in difficolta i "riformatori" che si riconoscono nel presidente Rohani.

E non è un caso che, subito dopo l'annuncio di Trump, la Tv di Stato iraniana ha ritrasmesso il discorso pronunciato il 21 settembre scorso da Rohani, nel quale aveva affermato che "L'Iran rafforzerà le proprie capacità militari, comprese quelle balistiche, nonostante le critiche mosse da Stati Uniti e Francia". "Quando si tratta di difendere il nostro Paese non chiediamo il permesso a nessuno", aveva aggiunto il presidente iraniano nel discorso trasmesso in diretta televisiva. "Che lo vogliate o meno, noi rafforzeremo le nostre capacità militari, necessarie come deterrente, rafforzeremo non solo le nostre capacità balistiche, ma anche le nostre forze aeree, di terra e di mare", aveva aggiunto Rohani nel suo intervento in occasione di una marcia commemorativa dell'inizio della guerra Iraq-Iran del 1980.

La chiusura americana spiazza la diplomazia di Rohani e cancella la disponibilità di Teheran, rivelata dall'agenzia britannica Reuters, ad avviare discussioni sul proprio programma missilistico. Ora le cose si complicano e la scelta di Trump viene percepita a Teheran come a Baghdad, a Damasco come nella Beirut di Hezbollah come una dichiarazione di guerra al mondo sciita. Siamo alla conta delle forze in campo: ai centomila uomini in Iraq, controllati dai comandi dei Pasdaran iraniani alle cui direttive rispondono metà delle milizie sciite nel Paese, al-Hashd al-Shaabi. vanno sommati altri cinquantamila in Siria, fra siriani, iracheni, sciiti afghani e pachistani, e altrettanti di Hezbollah in Libano. Ma la svolta di Trump non piace neanche ad Ankara. Più dello Stato islamico, in rotta militare in Siria e Iraq, al presidente turco fa paura la nascita di uno Stato curdo che dalla provincia irachena si estenda a parti della Turchia e della Siria. Al "Sultano di Ankara" non è piaciuto affatto il sostegno militare dato dagli Usa alle milizie curde siriani dell'Ypg, in prima linea nella liberazione di Raqqa, la "capitale" siriana dell'Isis. E così, ecco Erdogan stringere un patto d'azione con Mosca e Teheran, acquistando dalla Russia i missili S-400 e lanciando un'operazione congiunta in Siria.

La Russia, uno dei garanti dell'intesa sul nucleare ha reagito in modo interlocutorio alla "decertificazione" di Trump. Il capo della diplomazia russa Serghiei Lavrov ha confermato al suo omologo di Teheran, Javad Zarif, che la Russia resta impegnata nel rispetto dell'accordo sul nucleare iraniano. Di più, al momento, Mosca, e soprattutto il Cremlino, non dice. Analisti russi sostengono che quella annunciata da Trump è più una mossa legata al dibattito interno americano – e al complicato rapporto tra il Presidente e il Congresso – che una svolta radicale in politica estera. Intanto, però, la Russia rafforza le sue posizioni in Siria, rassicura il governo (sciita) di Baghdad sulla intangibilità della propria sovranità nazionale su tutto il territorio iracheno (tradotto: Mosca non sostiene l'indipendenza del Kurdistan iracheno) e "consiglia" i suoi referenti nel campo sunnita – l'Egitto di al-Sisi e la Turchia di Erdogan – a non assecondare i disegni egemonici sauditi, sostenuti da Trump. Quel che è certo, è che la Russia non rinuncerà ai suoi sbocchi nel Mediterraneo né ad essere soggetto dominante in una "Jalta mediorientale".

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