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Esteri

A Raqqa la fine e il nuovo inizio per l'Isis 2.0

Erik de Castro / Reuters
Erik de Castro / Reuters 

Raqqa, battaglia finale. Stavolta, sembra essere vero. Le forze siriane a maggioranza curda sostenute dagli Usa e la Coalizione internazionale a guida americana affermano stamane che è in corso la "battaglia finale" per strappare all'Isis la città di Raqqa, considerata la 'capitale' dello Stato islamico in Siria. L'operazione potrebbe tuttavia richiedere ancora ore o giorni. Le notizie che provengono dal terreno sono confuse e contraddittorie. Secondo la Coalizione a guida americana, le cosiddette Forze democratiche siriane (Sdf) alleate degli Usa hanno riconquistato l'85%della città. Tra coloro che potrebbero cercare di fuggire da Raqqa vi sono anche molti foreign fighter provenienti da Paesi occidentali, che sono contrari alla loro evacuazione. Secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), ad opporsi all'accordo per l'evacuazione sarebbero stati in particolare i servizi di intelligence francesi, che sospettano la presenza in città di alcuni organizzatori degli attentati compiuti a Parigi. E il nome che circola insistentemente in queste ore è quello di Oussama Atar, nome di battaglia Abu Ahmad, sospettato di essere il mandate degli attentati di Parigi del 2015 e Bruxelles nel 2016, fra i più sanguinosi in Europa: "L'ostacolo alla partenza degli ultimi jihadisti è la mente degli attacchi a Parigi del novembre 2015 che si rifiuterebbe di arrendersi", conferma Rami Abdel-Rahman, direttore dell'Ondus. Forse la bandiera nera del Daesh verrà finalmente ammainata a Raqqa, ma il punto è che la "questione politica" siriana non solo non si risolverà il giorno in cui la bandiera nera dell'Isis sarà ammainata a Raqqa come a Mosul, ma proprio in quel momento esploderanno tutte le contraddizioni, geopolitiche, che hanno fatto sì che l'Isis non sia stata già sconfitta militarmente.

Non si tratta solo del destino di Bashar al-Assad: Mosca e Teheran lo difendono, lo sostengono, lo armano, ma non legano i propri interessi strategici in Siria e nel Medio Oriente, al destino di un dittatore che non ha più seguito interno, se non nella comunità alawita. La Siria è ormai da tempo uno Stato fallito, e tutti gli attori che da anni hanno fatto di quel martoriato Paese il teatro insanguinato di una guerra per procura, stanno agendo già in una ottica post-Isis, disegnando sul terreno la spartizione della Siria in almeno quattro protettorati configurati su basi etniche e confessionali. Sono i rapporti di forza stabiliti oggi sul campo (in Siria come in Iraq, in Yemen come nel Golfo Persico) a determinare le condizioni politiche che guideranno il dopo-Isis nel Grande Medio Oriente. Un "dopo" che, detto per inciso, non è ancora scoccato visto che l'Isis controlla ancora ampie aree in territorio siriano ma anche in Iraq dove mantiene il possesso di un'area di 500 chilometri quadrati ad Hawija, a ovest di Kirkuk, e una fascia di territorio lunga 400 chilometri alla frontiera con la Siria, settore dove operano le milizie scite filo iraniane congiuntesi con le truppe di Bashar al-Assad.

Di certo, il dopo-Isis in Siria sarà molto ma molto rischioso. Soprattutto nelle zone a maggioranza sunnita (come, per l'appunto, quella di Raqqa). E per provare a stabilizzare un Paese distrutto, per garantire il rientro di milioni di profughi, occorreranno anni e, rimarcano all'Huffington Post generali che il Medio Oriente conoscono molto bene, un impegno sul terreno di un contingente militare che non potrà essere inferiore, nella medietà, a centomila uomini. Centomila. Impegnati in una missione di "peace-enforcement" (imposizione della pace) che, spiegano sempre le fonti, è molto più impegnativa e "aggressiva" rispetto ad una missione di "peacekeeping". Aggressiva nel senso che i militari avranno il compito di bonificare il territorio, intervenire contro ogni sacca di resistenza (e la sconfitta dell'Isis non significa affatto che nell'area siro-irachena non resteranno formazioni jihadiste) e mettere in sicurezza frontiere e strutture. Quanto a Raqqa, i maggiori successi militari sono dovuti alle forze curdo-siriane (Syrian Democratic Forces – SDF) sostenute dagli Stati Uniti.

L'offensiva, che sarebbe nella sua fase finale, è in corso su tre lati: da est, da nord e da ovest lasciando un corridoio a sud che consente ai 4mila miliziani che si stima difendano la città di ritirarsi. Tutto bene, dunque. Niente affatto. Perché l'avanzata delle SDF, nell'ottica del post-Isis, viene vista come fumo negli occhi da due soggetti decisivi sullo scacchiere mediorientale: la Turchia di Erdogan (che più di ogni altra cosa teme la creazione di un Grande Kurdistan) e la Russia di Putin. "Invece di eliminare i terroristi colpevoli dell'uccisione di centinaia e migliaia di civili siriani – ha detto il comandante delle truppe russe in Siria, generale Serghiei Surovikin – la Coalizione a guida Usa assieme alle SDF, agiscono in collusione con i capibanda dell'Isis che lasciano senza combattere gli insediamenti che avevano preso e si dirigono verso i luoghi in cui sono attive le forze governative siriane". D'altro canto, già in aprile, le SDF annunciavano che il controllo di Raqqa dopo la sconfitta di Daesh sarebbe finito nelle mani di un "Consiglio civile" e non sotto il regime di Bashar al-Assad. Quest'organo sarebbe sostenuto dalla presenza di oltre 3 mila soldati americani.

Il generale Joseph Votel, comandante in capo delle Forze statunitensi in Medio Oriente, ha dichiarato che queste truppe terrestri sarebbero rimaste a Raqqa a lungo dopo la sconfitta del Califatto per aiutare "gli alleati degli americani» a stabilizzare la regione e aiutarli a stabilire "gli sforzi di mantenimento della pace di Siria". Sul campo, si sono già delineate le alleanze "spartitorie". Al quarto round di colloqui ad Astana, è stato approvato un memorandum tra Russia, Iran e Turchia che prevede l'istituzione di quattro zone di de-conflitto in Siria in cui dovranno cessare gli scontri tra fronte governativo e ribelli e dovranno essere istituiti corridoi umanitari e linee di demarcazione con checkpoint gestiti da truppe russe, iraniane e turche (a seconda delle zone di influenza), per monitorare e garantire il rispetto dell'accordo. Le quattro zone definite sono la zona del governatorato di Idlib, che comprende anche parte dei governatorati di Aleppo, Hama e Latakia, e che sarà monitorata dalla Turchia, la zona a nord di Homs, quella dei sobborghi di Damasco nella Ghouta orientale e quella a sud nelle province di Deraa e Quneitra, che saranno monitorate dalle controparti russe e iraniane. E altre aree spartitorie si stanno configurando nel fronte a guida Usa (con gli appetiti non nascosti di Francia, Gran Bretagna, Egitto Arabia Saudita e, defilata ma non troppo, Israele). Al contempo, la sconfitta in Siraq ha costretto i comandi militari del Daesh a rivedere i propri piani, cambiando strategia e puntando ad una Jihad globale che abbia l'Occidente come teatro di battaglia. In altri termini: come trasformare una sconfitta territoriale in una minaccia che porta al cuore dell'Europa. Lupi solitari più foreign fighters di ritorno. Ecco allora l'attivazione di cellule "dormienti", l'indicazione ai "mujahiddin" con passaporto europeo di rientrare a casa per seminare morte e terrore nel Vecchio continente. Non si tratta solo di "lupi solitari" reclutati attraverso i social, indottrinati e preparati all'azione sulle "moschee" e campi di addestramento "mediatici" (sono oltre 1700 i siti che fanno riferimento alla galassia dell'Islam radicale).

L'Isis ha cellule terroristiche clandestine in Gran Bretagna e Germania, analoghe ai gruppi che hanno condotto gli attentati di Parigi e Bruxelles. Stando ad un rapporto del 2 dicembre 2016 di Europol, intitolato 'Cambiamenti nel Modus Operandi dell'Isis rivisitato', "squadre assemblate in Siria" sarebbero state inviate in Europa via Ucraina e Paesi Baltici, dove avrebbero già acquistato armi sul mercato nero. Ma anche la Libia è considerata uno dei trampolini di lancio, forse per compiere azioni parallele in Nord Africa. Secondo diversi analisti internazionali, ormai le rotte aeree che collegano Istanbul con l'Africa settentrionale pullulano di foreign fighters o aspiranti tali. Molti di coloro che hanno combattuto in Medio Oriente si recano sul Bosforo e prendono un aereo alla volta del Sudan. Di qui proseguono in direzione nord-ovest, alla volta dell'entroterra libico. Dove, secondo le informazioni raccolte dall'intelligence di diversi Paesi europei, l'Isis si sta riorganizzando. . Pur avendo perso ormai da tempo la roccaforte costiera di Sirte, i miliziani del Daesh si sono insediati nelle zone franche del deserto come quella dell'oasi di Ubari, non distante dal confine algerino. Qui si riorganizzano ed esercitano il controllo del territorio con scorrerie, rapimenti ed estorsioni. Il Wall Street Journal, citando sue fonti nelle intelligence libiche ed europee, ha scritto che le cellule dello Stato Islamico in Libia agiscono soprattutto fuori dalle città e possono essere formate anche da decine di combattenti. Si finanziano sequestrando i camion commerciali e facendo estorsioni ai danni di coloro che operano nel traffico di esseri umani dalla Libia all'Europa. Tra loro ci sarebbero anche miliziani addestrati a Raqqa per costruire armi, sia da usare in guerra che da impiegare per compiere gli attentati in Europa. Altro Paese nordafricano nel mirino della "nuova Isis" è la Tunisia.

Secondo le stime ufficiali del ministero degli Interni tunisino, negli ultimi due anni sarebbero stati infatti almeno 3.000 i tunisini partiti per raggiungere le roccaforti dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Senza dimenticare che alcuni degli attentati terroristici più cruenti rivendicati da ISIS si sono verificati proprio in Tunisia (i due più eclatanti sono stati quelli del 2015 al museo nazionale del Bardo e nella spiaggia di Sousse) e che il radicamento di ISIS in Libia è stato reso possibile per il passaggio di migliaia di jihadisti proprio da questo Paese. Lo scorso 1 ottobre, la Guardia nazionale tunisina ha arrestato 5 estremisti islamici membri di una cellula dell'Isis attiva nell'area di Sousse, accusati di far parte di una organizzazione terroristica. Un'azione a tutto campo, dunque, è quella messa in atto dalla Jihad globale: squadre composte da "diverse decine di persone e dirette dall'Isis" potrebbero già essere presenti in Europa per commettere attacchi terroristici. Martin Chulov, giornalista del "Guardian", esperto di terrorismo jihadista, aveva rivelato che prima degli attentati di Parigi i leader dello Stato islamico si erano riuniti vicino a Raqqa, e in quell'occasione avevano deciso di mettere in piedi una nuova strategia che prevede grandi attentati nelle capitali europeeSul piano operativo e della catena di comando, la divisione che si occupa degli attentati all'estero è una branca distinta all'interno dell'organigramma dello Stato islamico: recluta, addestra, fornisce i soldi e organizza la consegna delle armi ai combattenti del gruppo che sono pronti a compiere degli attentati. La divisione non si occupa solo degli attentati in ma anche in altri Paesi dove ci sono località turistiche frequentate dagli occidentali, per esempio la Turchia, l'Egitto e la Tunisia. Così agisce l'Isis 2.0. Il dopo Raqqa è anche questo.

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