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Politica

Nel silenzio del Senato la voce di un uomo coerente

ANSA
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Alle 12,15 il presidente Grasso annuncia: "La parola al senatore Giorgio Napolitano. È autorizzato a parlare da seduto". Il presidente emerito, 93 anni, è al suo scranno. La fatica, stavolta, impedisce di stare in piedi. Sul banco è stata montata una luce da tavolo, per favorire meglio la lettura delle sette cartelle. Tono pacato, sobrio, a tratti pedagogico, nell'analizzare un'esigenza giusta, la legge elettorale, oggetto di appelli, sollecitazioni, stimoli al Parlamento non colti negli anni del suo doppio mandato, portata ora avanti in modo sbagliato, con una "compressione" del ruolo del Parlamento: "Quali forzature - dice entrando subito nel tema - può produrre il ricorso a una fiducia che sancisca la totale inemendabilità di una proposta di legge estremamente delicata?".

L'Aula, che ormai non ha più la solennità di un tempo, per una volta è avvolta da un silenzio denso. È l'immagine di un uomo dello Stato, di un combattente per cui la politica, come scrisse il suo maestro Giorgio Amendola, è scelta di vita e grande passione laica. La politica come storia in atto, come iniziativa razionale nella situazione che ogni volta si determina, non come testimonianza, celebrazione o autocelebrazione, alla ricerca dell'effetto, della popolarità, del facile consenso. Fino all'ultimo.

C'è tutto il senso dei tempi nell'immagine: l'ex capo dello Stato, vecchio comunista cresciuto in duri anni brechtiani che, cartella dopo cartella, si aiuta anche con una lente di ingrandimento nella lettura, ma non rinuncia a sottolineare le incongruenze di una legge pasticciata; i banchi della destra berlusconiana, che già si sente establishment di governo, e poco importa se con Salvini o con Renzi, deserti; il Pd che ascolta, senza mai - mai - applaudire, ma senza neanche tanto imbarazzo di fronte a critiche severe, sul metodo di una legge imposta con la fiducia e discutibile su molti punti. Con una certa malizia, Napolitano prende a paragone il Mattarellum, la legge scritta dal suo taciturno successore al Colle, per sottolineare come sarebbe stata "coerente" la scelta del voto disgiunto, ovvero la "netta distinzione tra candidature nei collegi e quelle nelle liste dei partiti"

In fondo, nel discorso, nel fare i conti con la situazione concreta di una legge elettorale approvata in questo modo, alla fine di una legislatura che iniziò con l'inedito del suo secondo mandato - ricordate quel "fate le riforme o ne trarrò le conseguenze" - c'è tutto il fallimento di questa fase e una sconfitta storica da cui l'ex capo dello Stato non si tira fuori. Ma di cui, al tempo stesso, individua il principale responsabile. Si capisce quando parla dell'attuale governo come di una vittima di pressioni extraparlamentari, da parte del segretario del suo partito: "Il presidente Gentiloni, sottoposto a forti pressioni, ha dovuto aderire a quella richiesta, e me ne rammarico...". Parole accompagnate da uno scatto delle braccia, che si allargano in avanti, unica volta nei diciassette minuti di intervento.

Il non detto è che, tra la fiducia e un dibattito eterno, ci sono parecchie alternative e sfumature: si poteva mettere la fiducia su alcuni punti, selezionare ambiti per consentire un minimo di discussione. Le forzature, invece, recano con sé uno strascico di veleni e di macerie col governo più debole, e più debole, al tempo stesso, quell'idea di centrosinistra largo auspicato da Napolitano, Prodi, Letta. Ma soprattutto macerie nelle istituzioni. Perché l'accordone di Sistema tra Pd, Lega Forza Italia e centristi è una manovra, in qualche misura, extra-istituzionale, in cui i leader salvano se stessi e tirano su un meccanismo perfetto per far fuori gli altri. Una pressione sulle istituzioni e non delle istituzioni, in nome di un disegno generale, che è poi il tratto fondamentale della presidenza di Napolitano. C'è un segno di coerenze nelle sue critiche all'attuale legge elettorale e alla forzatura della fiducia, perché certo la sua presidenza fu caratterizzata da pressioni, moniti, moral suasion, e da una interpretazione interventista e assai poco notarile del mandato, ma sempre nel solco di una impostazione che parte dalla difesa delle istituzioni, e dunque dalla necessità di una loro riforma. Proprio come insegnava il vecchio Pci.

E non è un caso che, al netto del rammarico, alla fine come si dice in gergo il titolo è su Gentiloni: "Ho compreso la difficoltà del presidente del Consiglio che ho stimato e stimo per il modo in cui ha guidato e guida il paese". L'Europa, l'importanza della stabilità, la tenuta del paese. Napolitano prova ad aiutare il premier, nell'immediato su Bankitalia, e a tenere aperta la prospettiva di un discorso a sinistra, dopo le elezioni siciliane. Ed è evidente che, alla fine, ha annunciato che avrebbe votato la fiducia, perché il contrario avrebbe indebolito il governo, già abbastanza ammaccato dalla clava renziana.

Forse è poco, forse dal punto di vista del presidente emerito è il possibile nelle condizioni date, in un'epoca che legge con pessimismo, come un'epoca di decadenza e di crisi, di "faziosità", "scontri di potere", "personalismi dilaganti come mai" in cui sembra che la stessa democrazia stia "perdendo la ragione": "È il momento di sollevare lo sguardo dallo scontro quotidiano, dalle sue angustie e dalle sue nevrosi di fine legislatura". Alle 12,32 un applauso composto, rispettoso, distante. E torna il consueto brusio dell'Aula di questi tempi.

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