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Politica

Silvio Berlusconi in Sicilia come in una macchina del tempo, spartisce i ministri e rilancia il programma che fu

ANSA
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PALERMO - Come in una macchina del tempo, proprio in Sicilia dove tutto è nato. Silvio Berlusconi solca il palcoscenico del Teatro Politeama e parla di governo, del suo programma, come se fosse di tutti, di un assetto già deciso, da protagonista di uno spettacolo eternamente uguale a se stesso: "Nel Governo 12 ministri su 20 saranno della società civile, delle imprese, della cultura. Solo 8 devono essere politici e di questi 3 di Forza Italia, 3 della Lega e 2 di Fdi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono d'accordo".

Pochi istanti prima, l'inno di sempre ... "dai Forza Italia, che siamo tantissimi", "c'è il grande orgoglio in noi" ... e l'applauso che scatta quando sui maxi schermi compare Berlusconi nel suo comizio a Palermo, prima del famoso 61 a zero, poi Berlusconi che scamiciato che parla di Sicilia un paio d'anni dopo, ben quindici anni fa, come se il tempo non fosse mai passato: "Presidente – urla Gianfranco Micciché con voce roca da troppi comizi – questa è la sua Sicilia, la Sicilia che l'adora e che non la tradirà mai".

In sala entra Francantonio Genovese, ex segretario del Pd condannato in primo grado a 11 anni per una truffa milionaria sulla formazione professionale, seguito dal pargolo Luigi, candidato con Forza Italia: "A Messina – dice – faremo il pieno". Stringe mani, c'è la fila per un saluto. Si fanno vedere anche il fratello di Cuffaro, Silvio, e Francesco Cascio, ex presidente dell'Ars condannato per corruzione, anche se non sono candidati. "Benvenuto presidente Berlusconi" è lo striscione, di almeno quattro metri lì sul loggione, firmato Marianna Caronia, altra candidata, indagata nell'ambito dell'inchiesta sul "sistema Trapani" che portò all'arresto del sindaco.

Ritorno vintage, come i velluti del Politeama che evocano antichi fasti. Berlusconi torna dando per acquisito il programma che fu: "via l'Imu", "pensione minima a mille euro", "via imposta sulle donazioni", "sulle successioni", via pure il bollo auto ed Equitalia. E poco importa che il "signor Salvini" e la "signora Meloni", ignari commensali della grande abbuffata ministeriale, si attovaglino solo per un misero piatto di pasta a Catania, e il resto sia tutto da vedere, in questa prolessi sicula di ciò che accadrà in Italia. Stavolta sì, verrebbe da dire, pirandelliana. Dove ciò che pare, in fondo non è, nel gioco di apparenze di un centrodestra diviso e chissà vincente, che non si fa neanche fotografare assieme.

In oltre un'ora di discorso, il Cavaliere non nomina mai Matteo Renzi, come è innominato il governo. Non una critica, nell'ambito di un ragionamento in cui la realtà appare figlia di nessuno, tra qualche battuta, gag apprezzate dal pubblico e rimandi a "ciò che hanno fatto i nostri governi". Da leader del centrodestra, senza delfini, eredi, altri nomi all'infuori di sé, e a prescindere dai giudizi degli alleati coltiva la prospettiva delle larghe intese. Il nuovo nemico, anzi il pericolo che nell'immaginario sostituisce i comunisti, sono i Cinque stelle. È verso di loro che rispolvera qualche slogan, già abusato ai tempi della crociata anticomunista: "sono pauperisti", "non si può mettere il paese nelle loro mani", "vogliono una giustizia sommaria", "gente che non ha mai lavorato nella vita", fino al classico "chi li vota è una persona che non ragiona". Ai bei tempi utilizzò un termine più colorito.

La "sua Sicilia" applaude, in un teatro pieno stracolmo di candidati, sottobosco, funzionari regionali che fiutano il vento che cambia. E tutte le vecchie glorie in prima fila, baciate una a una da Francesca Pascale, al suo ingresso, di bianco vestita: Stefania Prestigiacomo, Renato Schifani, Antonio D'Alì, la Forza Italia dei tempi d'oro. Il candidato, Nello Musumeci, non scalda il cuore dell'ex premier: "Basta parlare di liste e di questa storia degli impresentabili – gli ha detto con durezza ieri a cena – devi parlare di programmi e basta". Se avesse potuto parlare lui, avrebbe rispolverato il classico più sincero, quella "persecuzione giudiziaria" che lo rende incandidabile, e che risuscita ombre dal suo passato siciliano, con l'accusa di essere assieme a Marcello Dell'Utri il mandante delle stragi. Ma evita: "Mi hanno pregato – dice l'ex premier – di non parlare di giustizia in campagna elettorale". E il discorso, prudente, europeista, poco conflittuale, è passato al vaglio degli avvocati preoccupati per Strasburgo e più in generale per attenti a non far saltare l'operazione faticosamente messa in piedi, e che ha portato alla riabilitazione agli occhi della Merkel: moderazione, affidabilità, senso dello Stato. Come in una macchina del tempo, quando attorno alle sette riparte l'inno di Forza Italia, ti accorgi che è quasi il 2018 e sono passati 24 anni. E davanti ai maxi schemi montati fuori c'è davvero poca gente.

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