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Esteri

Il Libano apre un nuovo fronte fra Vladimir Putin e Donald Trump

Jorge Silva / Reuters
Jorge Silva / Reuters 

Si scrive Siria, si legge Libano. Ciò che più teme oggi Donald Trump non è la "conquista" russa di Damasco, ormai data per fatta, ma quella, prossima ventura, di Beirut. In Vietnam, il capo della Casa Bianca e il suo omologo al Cremlino hanno sostituito l'incontro in programma a latere del summit Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) con una dichiarazione congiunta che prova a mascherare ciò che la realtà manifesta, e cioè un conflitto d'interessi che va ben al di là del futuro della Siria, con o senza Bashar al-Assad: la posta in gioco è l'intero Medio Oriente, sono gli equilibri di potenza globali e regionali, il controllo delle ricchezze petrolifere, le nuove vie del gas.

È la geopolitica che si fonde con gli affari miliardari, in armamenti, in infrastrutture, in risorse energetiche. Su questo, i due sovranismi nazionali, quello dell'America di Trump e della Russia di Putin, sono destinati inevitabilmente a entrare in rotta di collisione. E il Grande Medio Oriente, ancor più del 38° parallelo, rischia di trasformarsi in un immenso campo di battaglia per guerre di procura. In questa chiave, la Siria è "solo" l'inizio. A cui si sta aggiungendo lo Yemen, e in un futuro che si fa presente il Libano.

Per tenere insieme ciò che si sta sempre più scollando non basta più l'evocazione della guerra all'Isis, ormai in rotta in Siraq, né chiamare all'unità contro la minaccia della Jihad globale. I vertici internazionali avranno sempre un documento pronto sul terrorismo, sulla necessità di continuare gli sforzi per combattere lo Stato Islamico in Siria, magari aggiungendo, come è avvenuto in Asia, che Casa Bianca e Cremlino concordano sul fatto che non vi può essere una "soluzione militare" in Siria, tirando in ballo anche risoluzioni Onu, spingendosi anche ad affermare che la stabilità deve essere trovata attraverso i negoziati di Ginevra e, come precondizione di un accordo politico, ci deve essere una de-escalation militare. Per finire con l'immancabile mantra sull'impegno di Usa e Russia il loro impegno alla "sovranità, indipendenza, unità, integrità territoriale e natura secolare" della Siria, invitando le parti a partecipare ai colloqui di pace sotto l'egida Onu, a Ginevra.

Tutto questo – come il definire da parte di Putin, fonte Interfax, "utili, un successo", i contatti con Trump - è nell'ordine delle cose diplomatiche, materia di lavoro per gli sherpa e per i rispettivi portavoce, ma ciò che sta avvenendo oggi in Libano, come in Yemen, sta a significare che la partita iniziata è altra. Distruggere l'Isis non è più una priorità, semmai lo è stata.

Le alleanze si blindano, le trincee si fortificano. Washington ha scelto di schierarsi apertamente con Arabia Saudita e Israele. Trump, nonostante i consigli alla moderazione dell'isolato segretario di Stato Rex Tillerson, ha sposato il patto d'interessi tra Riad e Gerusalemme in funzione anti-iraniana. Più ancora della Corea del Nord, è l'Iran "l'impero del male" più avvertito dagli Usa. The Donald ha messo in conto il rafforzamento della presenza militare russa in Siria, in particolare nel porto di Tartus, sbocco strategico nel Mediterraneo per Mosca. Ma quello che non può permettere e permettersi è che anche l'Iran implementi le sue basi militari in Siria, come contropartita al decisivo sostegno dei pasdaran iraniani, e degli hezbollah libanesi alla vittoria militare dei lealisti di Assad.

Trump sa bene che una Siria "iranizzata" viene vista come una minaccia mortale sia da Israele che dal Regno Saud. Una minaccia destinata a crescere se, come appare sempre più evidente, la lunga mano di Teheran si estenderà anche al vicino Libano. Una guerra si prepara non solo mettendo a punto le strategie militari, ma facendola precedere da una offensiva diplomatica in grado di conquistare consensi nelle comunità internazionale. È ciò che sta facendo Israele. I media israeliani hanno rivelato l'esistenza di un cable inviato nei giorni scorsi dal ministero degli Esteri a tutte le sedi diplomatiche dello Stato ebraico. L'input è preciso: sostenere le ragioni dei sauditi contro l'Iran. Un ordine di servizio che vale soprattutto per gli ambasciatori che operano in Europa. La ragione è molto semplice e la spiega con chiarezza all'HuffPost una fonte diplomatica a Gerusalemme: "L'Europa difende ancora l'accordo sul nucleare raggiunto con l'Iran, ma l'espansionismo iraniano che si estende sempre più dall'Iraq alla Siria, dallo Yemen al Libano, è ormai sotto gli occhi di tutti".

Concetto che viene ancora di più esplicitato da uno dei ministri più vicini al premier Netanyahu: Yuval Steinitz, titolare del dicastero per le Infrastrutture nazionali, l'energia e le risorse idriche: "L'Iran -spiega all'Huffpost- si sta rivelando per quello che noi abbiamo sempre denunciato: il più pericoloso destabilizzatore del Medio Oriente. Non è solo la minaccia nucleare, è che il regime iraniano arma gruppi terroristici come Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica, con l'obiettivo di egemonizzare direttamente o per procura Paesi quali la Siria, l'Iraq, il Libano per poi puntare sulla Giordania e completare così l'accerchiamento d'Israele". "E' evidente – continua il ministro israeliano – che noi prenderemo le necessarie contromisure per far fronte a questa minaccia, cercando alleati nell'area e a livello internazionale".

Annota in proposito Daniel B. Shapiro, dell'Istituto per gli studi di sicurezza nazionale di Tel Aviv, in un articolo su Haaretz: "Israele si prepara dal 2006 ad una nuova guerra con Hezbollah – rimarca Shapiro - La crescente influenza di Teheran in tutta la regione rende chiaro che, anche più dell'ultimo conflitto, sarà una lotta per eliminare la minaccia iraniana dai confini a Nord del Paese. Israele e Arabia Saudita sono completamente allineati in questo conflitto regionale". Ma, sul piano militare, la situazione oggi è molto più complicata e irta di pericoli per Israele: l'Iran, attraverso il generale dei Pasdaran Qassem Suleimani, è in grado di muovere "50-60 mila miliziani sciiti" dall'Iraq alla Siria fino alle Alture del Golan. Nei giorni scorsi l'esercito siriano, appoggiato da quello iracheno e dalle milizie Hash al-Shaabi e dallo stesso Hezbollah, ha conquistato Al-Bukamal, l'ultima città in mano all'Isis in Siria, al confine con l'Iraq.

Il "corridoio sciita" è adesso aperto da Baghdad a Damasco. Di certo c'è che l'Iran ha sempre visto la Siria e Hezbollah come una proiezione strategica verso le coste del Mediterraneo e un'opportunità per esportare il suo gas in Europa. Parafrasando Giovanni Falcone, si può dire che in Medio Oriente segui le rotte del gas per comprendere le ragioni delle guerre e delle alleanze. La Russia, ad esempio, è il più grande fornitore di gas naturale verso l'Europa. Ecco un buon motivo per riflettere su qualcuna delle motivazioni, vere e non declamate, dell'intervento di Mosca in Siria e sull'incontro recente di Ankara tra Erdogan e Putin per la ripresa del gasdotto Turkish Stream. Ed ecco spiegato il riavvicinamento tra la Turchia e l'Iran. L'escalation verbale unisce Gerusalemme e Riad. Venerdì scorso, l'ordine di evacuazione ai sauditi – al quale è seguito l'analogo imperativo del "tutti a casa" impartito ai propri cittadini da Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Bahrein - è stato anticipato da una dichiarazione pesante del ministro degli Esteri Adel al-Jubeir, che ha definito senza mezzi termini il Libano uno Stato ostile aggiungendo che la presenza al governo e nei meccanismi amministrativi di Hezbollah è un "atto di guerra" contro l'Arabia Saudita. Israele sta rafforzando le sue postazioni militari nel Golan e alla frontiera col Libano.

Il Libano, per l'appunto. È in questo piccolo ma strategico Paese mediorientale che si sta consumando uno scontro politico che rischia di sfociare in una nuova guerra civile. Contro il premier dimissionario Saad Hariri si è scagliato nuovamente il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Secondo il capo del Partito di Dio sciita, Hariri è detenuto in Arabia Saudita e le sue dimissioni sono da ritenere incostituzionali in quanto estorte "sotto pressione". Una linea sposata da Teheran, e questo era da mettere in conto, ma in qualche modo supportata anche da Mosca. "Il rientro di Hariri in patria inerisce ai diritti di sovranità del Libano", dichiara l'ambasciatore russo a Beirut, Alexander Zasypkin, in una intervista all'emittente televisiva libanese LBC. "Gli Stati Uniti supportano la stabilità del Libano e si oppongono a qualsia azione che possa metterla a repentaglio", è l'interlocutoria risposta del portavoce del Dipartimento di Stato americano, Heather Nauert. Ma il "diplomatichese" non oscura la sostanza di una scelta che Trump ha compiuto da tempo: supportare il patto israelo-saudita. E più che in Siria, questo patto sarà verificato nel Paese dei Cedri.

"Il Libano è diviso in due campi simili – rimarca in una intervista ad al Jazeera, l'analista politico Khaldoun El Sharif -. Uno è pro-Iran e l'altro è pro-Saudita. E oggi come poche volte in passato gli interessi regionali di Teheran e Riad sono inconciliabili".

A mobilitarsi sono le piazze. Nel pomeriggio, in piazza dei Martiri a Beirut, si è svolta una manifestazione in sostegno del primo ministro libanese dimissionario Saad Hariri. Nei prossimi giorni seguiranno altre adunate di segno opposto. Gli analisti mediorientali ipotizzano che il fronte sunnita anti-iraniano possa adottare con il Libano la stessa tattica praticata con il Qatar: sanzioni economiche e isolamento diplomatico. Ma il Libano non ha le disponibilità finanziarie del ricco Qatar. L'economia libanese si alimenta, vive, in buona parte grazie ai finanziamenti delle petromonarchie del Golfo. Chiudere i rubinetti, significherebbe strangolare l'economia di un Paese che già deve sopportare l'accollo di oltre 1,4 milioni di profughi siriani. Le sanzioni sarebbero viste da Beirut, dal presidente (cristiano) Michel Aoun e da Hezbollah, come un atto di guerra, per certi versi più pervasivo di un'azione militare. E la risposta sarebbe immediata.

Il fronte libanese si unirebbe a quello siriano, i raid aerei israeliani sconfinerebbero dal territorio siriano alla Beqaa libanese. E obiettivi sauditi e israeliani sarebbero a rischio in ogni parte del mondo. Di fronte a uno scenario sempre più realistico, non sembra davvero bastare la dichiarazione, scontata, di Trump e Putin in Vietnam. Le parole vengono spazzate via dal vento. Un vento di guerra, che torna a spirare in Libano, dopo aver devastato la Siria.

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