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Cultura

Antonio Ricci: "Renzi ha la tristezza negli occhi. È come quei personaggi della Tv che si spengono. Per quanto ci provino non splenderanno più"

Courtesy to Antonio Ricci
Courtesy to Antonio Ricci 

A casa sua, la televisione era proibita: "Mio padre e mia madre consideravano le immagini una fonte di corruzione, un'invenzione del maligno da cui dovevano proteggermi". Anni dopo – come racconta in "Me Tapiro" (Mondadori) – Antonio Ricci farà della televisione il mestiere della vita, iniziando alla Rai come autore di "Fantastico" e "Te la do io l'America", poi inventando per Mediaset programmi leggendari ("Drive in") e trasmissioni che hanno successo da trent'anni ("Striscia la notizia"), format della notte ambientati su un dirigibile ("Lupo Solitario") e varietà sperimentali che mettevano insieme autori della sinistra più sinistra e la dea del porno, Moana Pozzi ("Matrioska").

Ogni creazione di Ricci ha giocato con un limite. A volte, oltrepassandolo. Altre volte rimanendo al di qua, per farlo osservare meglio. Ha ricevuto applausi e querele, elogi e demonizzazioni, ha lucidato le une e le altre come medaglie. Dentro ogni cosa che ha fatto c'è un filo che si srotola indietro nel tempo sino a quando quello schermo era un oggetto vietato e, guardarlo, rappresentava una trasgressione: "Per vedere le commedie di Govi, scappavo di casa con la scusa di dover andare da un amico a fare i compiti. Mi infilavo in una latteria vicino alla piazza di Albenga e rimanevo incollato alla "TV dei ragazzi", ai primordiali cartoni animati in bianco e nero, al maestro Manzi, a qualsiasi cosa facessero. Il televisore era posizionato in un punto così alto dello stanzone che per guardarlo dovevamo piegare il collo fino a farci male. Eravamo cinquanta, sessanta persone, tutte rapite dalla luce dello schermo che si faceva largo attraverso il fumo delle sigarette accese una dietro l'altra".

A un certo punto arrivò in casa sua la televisione?

Mi entrò letteralmente dentro con "Campanile sera". La trasmissione si doveva svolgere in Piazza San Michele, proprio sotto la finestra del nostro appartamento. Il mio terrazzo era stato scelto per installare un enorme padellone, e tecnici in camice bianco passavano per la cucina e salivano la scala a chiocciola per armeggiare intorno. La popolazione attendeva la messa in onda con trepidazione. E io compii un gesto che anni dopo avrei interpretato come un segnale inconfutabile del mio destino.

Quale?

Il conduttore, Renato Tagliani, pranzava al ristorante al piano terra. Si pavoneggiava, mentre la gente fuori lo sbirciava dai vetri e dalle tende. Lo incontrai per le scale e lo salutai tutto emozionato. Lui non rispose. Pensai non avesse sentito, perché in televisione era gentilissimo, molto cordiale con tutti. Lo salutai di nuovo, a voce più alta. Lui si voltò un attimo e proseguì come se non esistessi.

Dove andava?

Al gabinetto del ristorante. La sua scortesia mi fece rimanere così male che mi venne in mente che il bagno aveva una doppia chiusura, una dall'interno e una dall'esterno. Non riuscii a resistere alla tentazione di seguirlo e chiuderlo dentro. Cominciò a urlare, a dar pugni alla porta. Mi gustai la scena nascosto dietro un angolo e poi scappai. Per poco, non saltò la diretta.

Ma perché fu un segno?

Dentro di me godevo per aver scoperto la doppiezza di quel personaggio che, in onda, faceva tanti salamelecchi, fuori onda era un supponente. Non lo sapevo ancora, ma chiudere i personaggi nel gabinetto, svelandone la finzione, sarebbe diventata una routine del mio lavoro.

Prima che lo scoprisse, a cosa era appassionato?

Al liceo, amavo Dante Alighieri e attendevo la lettura in classe dei "Promessi sposi" con l'emozione con cui si aspetta che esca la nuova puntata di una serie. Mi angustio quando ascolto i racconti di coloro che hanno vissuto questi autori come una tortura dell'istruzione obbligatoria. Non è colpa loro. È dei professori che hanno avuto.

Lei che professore fu?

Una mattina, arrivò in classe la madre di un mio alunno preoccupatissima. Dico: "Signora, cos'è successo?". "Me lo dica lei, piuttosto: mio figlio mette la sveglia per venire a scuola". Ero riuscito ad accendere in quel ragazzo qualcosa. Non so se ha funzionato anche in altri casi. Non sono io a doverlo dire. Ma quando uno studente non ama ciò che studia, spesso, è perché nessuno è riuscito a fargli sentire la passione che c'è dentro.

Lei fece il '68?

Venivo dalla provincia e, per me, tutto cominciò quando arrivai all'Università di Lettere a Genova. All'improvviso scoprii: gli operai, il vietato vietare, tutto e subito, una risata vi seppellirà, la fantasia, il cloro al clero, il senso critico, la necessità di cambiare, la gioia di stare insieme, le assemblee e il bisogno di utopia. Ancora oggi, nei miei programmi, continuiamo a rifiutare il principio di autorità: sbeffeggiamo venerati maestri, padri nobili, nuovi santi e idee precostituite. Non riesco a riconoscere al '68 l'origine di tutti i mali del mondo.

Perché voi sessantottini parlate sempre così seriamente del '68?

Non è vero: c'era molta ironia in quegli anni e la mia l'ho custodita. Ricordo che un giorno, con un gruppo luddista, andammo a protestare sotto il carcere di Marassi contro l'arresto di uno studente. Avevamo più cartelli che persone per tenerli in mano. Per fare numero, arruolammo anche qualcuno al bar. Appena la polizia caricò, io e un mio amico – uno di quelli che stavano sempre lì teorizzare sul capitale e il lavoro – cominciammo a correre lungo la riva del Bisagno, tra i sassi e i rami degli alberi. Notai, nonostante io giocassi a calcio e fossi più allenato di lui, che galoppava più forte di me, con grande foga. Gli dissi: "Ma perché corri così?". "Perché se mi prendono non potrò fare la scuola ufficiali", mi rispose. Non era l'unico. Molti indossavano la maschera dei rivoluzionari sapendo che non l'avrebbero tenuta per tutta la vita.

Lei, però, cita ancora Gramsci. Perché?

Scrissi una tesi sulla letteratura italiana che finiva con uno studio su di lui. È un autore che trovo ancora molto utile. Negli Stati Unito lo sanno molto bene. In Italia, è diventato una caricatura. Il concetto di nazional popolare, prima che diventasse un insulto, era un insegnamento: quello di guardare a ciò che piace a moltitudini di persone senza disprezzo e puzze sotto il naso. Per non parlare della demonizzazione dell'avversario, che, secondo Gramsci, è la più stupida delle trappole. Esecrando il rivale, lo si mitizza, facendolo diventare una creatura divina, ai limiti dell'invincibilità.

È quello che è successo in Italia?

Quando ero ragazzo, leggevo continuamente su "L'espresso" il nome di questo Cefis, diventato presidente dell'Eni dopo la morte di Mattei. Sembrava che tolto di mezzo lui, l'Italia sarebbe stata liberata finalmente dal male. Eppure, dopo sono arrivati altri mostri. Prima Andreotti, per esempio. Poi, Berlusconi.

Alcuni l'hanno accusata di aver creato l'immaginario del berlusconismo, dunque di essere stato complice del "demonio".

Le ragazze de L'Havana quali trasmissioni di Fidel si sono sorbite per essere ridotte così? L'immaginario è un po' come le scie chimiche, ha i suoi sostenitori fondamentalisti e falsari. Ma nessuno sa bene cosa sia. Anzi, proprio perché è difficile dimostrarne la corrispondenza con la realtà, è stato usato come un alibi per tutto. La sinistra ha perso? È colpa dell'immaginario berlusconiano. (E quando ha vinto, invece? Come è possibile che l'immaginario funzioni a corrente alternata?)

Perché accade?

Perché si cerca il demonio sempre fuori di sé, anziché individuarlo dove spesso si annida: cioè, dentro di noi. Lui è lì, ma noi non lo si riconosciamo. Dimentichiamo che ha le corna. Due, per la precisione. E il due è un simbolo della divisione. E, infatti, eccolo lì il demonio della sinistra: nella divisione. È per questo che la sinistra perde, non certo per i meriti e le arti diaboliche di Berlusconi.

Marco Damilano ha scritto che "con il Gabibbo ha seminato l'anti politica per un quarto di secolo".

Bisognerebbe avvertire Damilano, ma secondo me lo sa già benissimo, che non può continuare a tirare le scarpe al teatro dei pupi. Esistono forme simboliche della messa in scena. I cow boy non muoiono veramente nel film e anche il tapiro d'oro non è di oro vero. Il Gabibbo non parla: rutta. Non ha le orecchie, perché non sa ascoltare. Non ragiona, è invasato, ha l'occhio fisso come gli ebeti, è l'unico di "Striscia la notizia" che dice: "vergogna". È fatto solo di pancia (la pancia del paese). In realtà, è una parodia del populismo e una presa in giro dell'anti politica.

Si è offeso quando Piero Pelù l'ha definita spin doctor di Matteo Renzi?

Come potrei sentirmi toccato da una frase di Piero Pelù? L'unico che ho davvero aiutato è stato Beppe Grillo, agli inizi della sua carriera in televisione. Venne a chiedermi disperato di andare a lavorare con lui alla Rai come autore. Era già un grande affabulatore, ma aveva bisogno di qualcuno che gli scrivesse i pezzi, perché quelli che aveva erano farina di altri sacchi. All'epoca facevo il preside della scuola per periti agrari e tecnici della Coronata. Per seguirlo, dovevo mollare tutto. Mi dicevano: "Ma che cazzo fai?". Lasciai il posto fisso e cominciai la mia carriera in televisione.

Si è pentito?

No. Cos'altro avrei potuto fare? Il professore? Mi sono divertito più così. E credo di aver fatto anche meno danni che se avessi scelto di fare il chirurgo.

Leggendo il suo libro, ho avuto l'impressione che lei disprezzi la tv. È così?

Qualche anno fa, mi chiamarono a confrontarmi con Bernard Noël, probabilmente l'intellettuale francese che odia di più la televisione. Alla fine dell'incontro, mi disse: "Credevo di parlare male della televisione. Mi sono ricreduto dopo aver ascoltato quanto più male ne parli tu". Ma non è disprezzo, è trattarla per quello che è: uno strumento che non spiega, ma spettacolarizza, non instaurando nessuno scambio con l'ascoltatore. È per questo che è contro la natura della televisione far cultura, che è in sé uno scambio.

Allora perché ha dedicato a essa la vita?

Perché se riesci a capire i meccanismi, puoi gettare un granello di sabbia negli ingranaggi. Certo: non la saboterai mai una volta per tutte. Ma puoi riuscire a far affiorare nello spettatore il dubbio che quel che vede non è la realtà. Non male, per un mezzo così assertivo come la tv. Dove, per avere le mani libere, non ho mai firmato un contratto di esclusiva con nessuno.

Berlusconi l'ha costruita, Grillo l'ha fatta, Renzi com'è in tv?

Renzi ha lanciato questo grande plot della rottamazione, una favola in cui gli orchi e i draghi erano quelli che popolavano la sinistra italiana prima che arrivasse lui. Ora, sta scoprendo che i suo veri nemici sono i suoi compagni di fiaba, quelli che credeva rimanessero sempre fedeli al suo fianco. È una sensazione terribile per un leader come lui. Uno che è arrivato con l'aria del conquistatore, immaginando di avere davanti a sé solo praterie da conquistare. All'improvviso, scopre che non può essere più sicuro di nulla, che non ha le spalle coperte. È un timore che ti cambia la faccia. Che ti deforma il viso e ti sfigura. Lo guardi bene e vedrà che gli si è spenta la luce negli occhi.

Ne è consapevole?

Credo di sì. Ai personaggi dello spettacolo succede che gli si spenga dentro qualcosa. Allora cercano in tutti i modi di ravvivarlo. Quasi mai ci riescono. È come se gli toccassero un punto nevralgico del corpo e si disattivasse un interruttore. Per quanto ci provino, non splenderanno più come prima. Compare nella loro espressione un dubbio. Sono i primi a non credere più a quello che fanno. Ecco cosa sta succedendo a Renzi. La tristezza si è impossessata del suo sguardo. È come se camminasse su un terreno fragilissimo. Non è più sicuro di nulla. Si è esposto alla luce nefasta della televisione e ne è uscito accecato. Ha passato mesi e mesi in cui era il solo illuminato dalla luce de riflettori e ha creduto di essere unico. In realtà, era solo. E, ora che l'ha scoperto, è il primo a sentirsi un deficiente per aver creduto alla sua stessa storia. L'idea di un bene comune non esiste, esiste solo un regolamento di conti fra astiose soubrette.

Avrebbe fatto meglio ad andarsene dopo il referendum?

Non saprei. Quel che so è che nello spettacolo, dunque anche nello spettacolo della politica, tutti muoiono per suicidio o, al massimo, come nel caso di Renzi, per fratricidio. Nessuno viene mai viene ucciso dal nemico. Quelle sono cose che succedono solo nei fantasy. Guardi cosa accade alla gente a cui consegniamo i tapiri: alcuni si comportano in maniera così assurda che quella diventa l'onta più infamante della loro vita.

A volte succede, come nel caso Weinstein e delle varie molestie, che le onte ritornino dal passato.

Mi son fatto l'idea che l'unica liberazione delle donne sia la morte del maschio. Le vedove, quando muore il marito, rinascono. Senza l'uomo al loro fianco, tornano a respirare.

Teme per la sua vita?

Ho elaborato una teoria che mi toglie il pensiero: mi sono convinto di essere morto da tempo.

(I proventi del libro "Me Tapiro. Antonio Ricci intercettato da Luigi Galella" saranno devoluti al Gruppo Abele di Don Ciotti)

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