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Esteri

Trump vuole spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Allarme nel mondo arabo: "Tre giorni di collera"

Mohamad Torokman / Reuters
Mohamad Torokman / Reuters 

La scelta è stata compiuta. Ed è destinata a infiammare ancor di più la polveriera mediorientale. Gli Stati Uniti hanno deciso di spostare la loro Ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendo quest'ultima capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico. Manca solo l'annuncio ufficiale ma la decisione è già stata comunicata al presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), a re Abdullah II di Giordania e al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La tensione è altissima ed è destinata a crescere ulteriormente nella giornata di domani, quando tutte le organizzazioni palestinesi hanno indetto una mobilitazione generale nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est. I palestinesi hanno infatti annunciato "3 giorni di collera" da mercoledì a venerdì per protesta contro la volontà del presidente Usa.

La protesta palestinese è annunciata per domani e Israele sta approntando il suo sistema di difesa per una "eventuale violenta" rivolta palestinese. "Il presidente Abbas ha prospettato al presidente degli Stati Uniti le conseguenze disastrose di questa decisione sul processo di pace e sulla pace, la sicurezza e la stabilità della regione e del mondo", afferma Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente palestinese.

L'HP lo raggiunge telefonicamente nel suo ufficio alla Muqata, il quartier generale dell'Anp a Ramallah. Sono omenti drammatici anche per chi, come lui, aveva vissuto i giorni dell'assedio israeliano alla Muqata, dove era asserragliato Yasser Arafat. "Ora – ci dice Abu Rudeina – può davvero succedere di tutto. Attendiamo l'annuncio ufficiale, ma una volta avvenuto – prosegue il portavoce di Abu Mazen – i Palestinesi chiuderanno ogni contatto con gli Usa". Da Gaza, Hamas chiama ad una mobilitazione immediata in difesa di "Al-Quds". La Jihad islamica palestinese promette di scatenare un esercito di "shahid" (martiri) pronti a sacrificare la propria vita in difesa della Città santa.

L'amministrazione Usa, con l'eccezione del moderato e per questo pericolante segretario di Stato Rex Tillerson, sembra essersi convinta che altri e più importanti sono gli interessi in ballo nel campo arabo e che su questi interessi si deve lavorare per allargare le divisioni, costruire nuove alleanze, nella antica logica del divide et impera . E' la stessa convinzione che anima Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha puntato tutto sul rafforzamento del fronte anti-iraniano, con un occhio di riguardo verso l'Arabia Saudita e le petromonarchie sunnite del Golfo. Dalla Siria allo Yemen, dall'Iraq al Libano, lo scontro di potenza tra Riyadh, e i suoi alleati, e l'Iran, con i suoi hezbollah libanesi e le milizie sciite irachene e quelle houthi yemenite, segna oggi il Medio Oriente. Il giovane principe ereditario saudita, Mohammad bin-Salman, evoca una sorta di "Armageddon" tra Arabi e Persiani, arrivando al punto di indicare nella Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, l'"Hitler del Medio Oriente". E non è un caso che questo riferimento storico-politico è condiviso e rilanciato da Netanyahu con l'aggiunta, fondamentale per la memoria del popolo ebraico, di un riferimento alla "Shoah nucleare" come obiettivo dichiarato del "regime nazista" di Teheran. Il patto israelo-saudita poteva tenere, forse, ma solo se non fosse intervenuto qualcosa che neanche il pragmatico futuro re saudita può disconoscere: Gerusalemme. Come mito prim'ancora che come problema politico. In passato, neanche troppo lontano, quando un raìs era alle prese con difficoltà interne, quando doveva ricercare un collante ideologico che tenesse unito il popolo, quando gli serviva distogliere l'attenzione, e la rabbia, dalla imperante corruzione o giustificare il protrarsi dello stato d'emergenza, quel collante, quella giustificazione era la "causa palestinese" imperniata sulla riconquista di "Al Quds" (Gerusalemme), terzo luogo sacro dell'Islam, dopo Mecca e Medina. Fu così per Saddam Hussein, per Hafez Assad, per Hosni Mubarak, per Muammar Gheddafi. E lo può diventare oggi per Abdel Fattah al-Sisi, per Recep Tayyp Erdogan, per re, sultani e califfi...Ed Erdoan ha battuto tutti sul tempo affermando solennemente che "Gerusalemme è la red line per ogni Musulmano". Sia esso sunnita o sciita, arabo, asiatico, "persiano". Ed è indicativo che dopo la dirissima presa di posizione del sunnita Erdogan, da Teheran, capitale del più importante Paese sciita, arrivi lesortazione, per tutti i Musulmani, di mobilitarsi in difesa della "santa al-Quds".

"Il presidente turco dimentica che Gerusalemme è stata capitale degli Ebrei per 3000 anni", ribatte un fonte israeliana vicina al premier Netanyahu. Tranciante è la replica del ministro dell'Educazione, l'ultranazionalista Naftali Bennett: "Alla fine – taglia corto Bennett – è meglio avere una Gerusalemme unita che la simpatia di Erdogan". Per Netanyahu è un successo politico, ma i comandi delle Idf (Le Forze di difesa israeliane) si attrezzano a far fronte alla reazione palestinese. "Con la sua decisione Trump si è assunto una responsabilità storica – dichiara ad HP l'ex ministro degli Esteri palestinese, Nabil Shaath -. In questo modo gli Usa perdono ogni credibilità come mediatori oltre ad aver distrutto la soluzione a due Stati". Una Gerusalemme ufficialmente "ebraizzata" è uno straordinario strumento di propaganda per i gruppi jihadisti, da al-Qaeda a Daesh. Può mobilitare le piazze, è già avvenuto a Baghdad, e per quanto si dimostrino "fratelli coltelli", non c'è un leader arabo o musulmano disposto ad avallare la decisione di Trump di spostare l'Ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e " dichiarare la Città Santa, la Città Contesa, "capitale unica e indivisibile" d'Israele. Da qualunque angolatura lo si voglia analizzare, lo strappo su Gerusalemme è destinato a ricucire le relazioni, oggi in crisi, tra le leadership arabe e musulmane. Per necessità più che convinzione.

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