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Cronaca

Alfonso Giordano: "Non avevo mai dato un ergastolo. Al Maxiprocesso ne diedi 19, scandendo i nomi dei boss uno per uno"

Gianni Cipriano
Gianni Cipriano 

Era il 16 dicembre 1987 quando il giudice Alfonso Giordano, dopo quasi due anni di Maxiprocesso, lesse in aula la storica sentenza che per la prima volta condannava i vertici della mafia. Oggi ha 89 anni, è in pensione e ha accettato di farsi intervistare per ricordare quel periodo. Ci fa accomodare nel suo studio con i modi cordiali d'un signore d'altri tempi, circondati da settemila libri e da una grande vetrina con centinaia di statuine di Buddha.

Entrato giovanissimo in magistratura, Giordano eredita la passione per la toga dal padre magistrato. Da lui impara un codice morale sulle funzioni che avrebbe poi incarnato: "Lui intendeva la magistratura come un fatto religioso, era una vita interiormente vissuta che lui esprimeva comportandosi come giudice".

Sono queste le ragioni che lo spingono ad accettare il ruolo più difficile della sua vita. Negli anni in cui poliziotti e magistrati venivano barbaramente ammazzati per le strade di Palermo, dopo che diversi colleghi avevano rifiutato l'incarico, quest'uomo dall'aspetto mite e inoffensivo che allora aveva cinquantasei anni non si fece venire dubbi. Per spiegare le motivazioni che lo spinsero ad accettare, Giordano usa un paragone letterario: "Gli eroi di Hemingway, che effettivamente fanno quello che devono fare perché è l'esigenza del dovere. Il famoso imperativo kantiano del dovere per il dovere".

Prima di mettersi al lavoro sulle migliaia di pagine dell'istruttoria scritta dal Pool, Giordano affronta un percorso psicologico e spirituale su sé stesso, ponendosi domande sul ruolo che dovrà assumere e le conseguenze delle sue scelte.

Gianni Cipriano
Gianni Cipriano 

"Avendo fatto il magistrato per tanto tempo era usuale per me giudicare. Questo dramma tra il soggetto Io che si sdoppiava - il fatto di dover assumere una qualifica e una posizione che ti porta necessariamente ad avere un livello superiore - è qualche cosa che da un lato inorgoglisce ma dall'altro preoccupa, perché dimostra la necessità che tu soggetto Giudice debba superare le tue stesse miserie di uomo e metterti su un piano superiore che ha qualcosa di super umano. Io in Corte d'assise non c'ero mai stato, non avevo mai dato un ergastolo. Un ergastolo significa la morte civile, un soggetto che non torna più a vivere la propria vita. È molto pesante. Ma a poco a poco, proprio per quella preparazione che io cercai di fare, quasi inconsapevolmente fui guidato da qualcosa di interiore. Non sono mai stato così tranquillo e sereno come in quel periodo... Non so per quale motivo, potrei anche sospettare un intervento divino... La serenità nasceva dal fatto che io mi ero proposto di fare assolutamente quello che veramente andava fatto per esigenza di giustizia e non per vendetta od opportunismi".

Non c'è solamente una solida preparazione spirituale a difendere Giordano: oltre alla scorta che gli viene affidata, il giudice porta sempre con sé una Walther PP, la stessa pistola usata da James Bond in Dr. No. D'altronde, avrebbe saputo anni dopo, Totò Riina aveva chiesto a Giovanni Brusca un "favore": ucciderlo.

Il processo iniziò il 10 febbraio 1986, un giorno che il giudice non potrà mai dimenticare. Ci vorranno 349 udienze per sentire i 1314 interrogatori di boss, trafficanti di droga e pentiti, per ascoltare vedove taciturne e madri che reclamano giustizia per il figlio scomparso, per le requisitorie dei pubblici ministeri Ayala e Signorino e le 635 arringhe difensive degli avvocati. Un circo che Giordano riesce a guidare con fermezza e determinazione.

Dopo 21 mesi di dibattimento la Corte si ritira per deliberare in quella che sarà la più lunga camera di consiglio della storia giudiziaria. Prima però Giordano riceve uno strano "augurio" da parte del boss Michele Greco, detto "Il Papa", che da dietro le sbarre augura ai giudici la "pace e serenità". Mentre tutti lo interpretarono come una minaccia, i giurati non ne ebbero la percezione: "Io risposi "È quello che ci auguriamo anche noi" perché effettivamente collimava con quello che pensavo. Lui faceva riferimento alla Bibbia, ma in sostanza è quello che ogni giudice dovrebbe avere: la mente sgombra da ogni pregiudizio e anche una certa serenità".

È il 16 dicembre 1987 quando Giordano, alla testa della corte, esce dalla camera di consiglio e fa ritorno in aula dopo 35 giorni. Per un'ora e mezza Giordano legge le 56 pagine del dispositivo della sentenza tutte di fila, concedendosi qualche pausa per riprendere fiato. Un'abilità acquisita grazie ad anni di esercizio di Pranayama, la tecnica yoga della respirazione. Riascoltando l'audio della lettura c'è qualcosa di quasi mistico nella parlata di Giordano, nel suo modo veloce di leggere, in piedi, con i giudici accanto e l'intera aula pietrificata in un silenzio tombale, mentre la sua voce riecheggia tra le gabbie e la Storia.

"Data la lunghezza del dispositivo ho cercato di leggere il più in fretta possibile, solo che arrivato al punto in cui c'erano gli ergastoli ho rallentato, ho scandito le parole per farle ben comprendere. Parole pesanti come pietre. Mi ricordo che quando ho pronunciato quelle parole - diciannove ergastoli per diciannove volte - ne sentii tutto il peso e l'emozione, che nasceva da una pena così grave che veniva irrogata"

Qui Giordano si ferma, sta in silenzio assorto nei pensieri, come se rivivesse quella scena che a trent'anni di distanza sembra turbarlo ancora.

"Quello che poi mi colpì, a cose fatte, è che non ci sia stata nessuna reazione. Non parlò nessuno". Fu una condanna storica: per la prima volta venivano condannati i vertici della mafia, l'esistenza di una Cupola era stata riconosciuta e i pentiti creduti. Una sentenza che resisterà fino in Cassazione.

Finalmente il giudice poté tornare a casa: quella notte dormì sereno come un bambino. Nei ricordi di Giordano rimane una certa soddisfazione per il contributo dato con il suo lavoro e la profonda emozione che gli suscita ripensare a quegli anni. Soprattutto quando ancora oggi, a distanza di tempo, la gente per strada lo ringrazia e gli stringe la mano. Ci congediamo, anche perché questa sera il giudice ha un impegno seccante, ma nulla in confronto al Maxiprocesso: "Ho la riunione di condominio", dice.

Ci saluta sorridendo. Sembra davvero in pace, il giudice Giordano: stoico come un eroe di Hemingway, discreto come la pistola di James Bond e sereno come un Buddha.

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