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Esteri

Stai con me o non ti pago. La strategia di Donald Trump per Iran, Pakistan e Palestina

Carlos Barria / Reuters
Carlos Barria / Reuters 

Trump rilancia. E con lui Netanyahu: gli Stati Uniti e Israele mettono nel mirino il regime iraniano, andando oltre il sostegno alla rivolta che da una settimana infiamma il Paese. La Casa Bianca torna a chiedere all'Iran di rispettare i diritti dei cittadini nelle proteste in corso. Ad affermarlo è la portavoce Sarah Sanders nel suo briefing quotidiano. Trump, ha spiegato la portavoce, vorrebbe vedere l'Iran rispettare i diritti umani e non essere più sponsor di terrorismo, aggiungendo che il presidente non ha ancora preso la sua decisione finale sulla firma, entro fine gennaio, delle esenzioni delle sanzioni previste dall'accordo sul nucleare.

L'ambasciatrice Usa all'Onu Nikki Haley ha annunciato in una conferenza stampa che chiederà una sessione di emergenza alle Nazioni Unite e al Consiglio dei diritti umani a Ginevra sull' Iran. L'amministrazione Trump ha intanto chiesto al governo iraniano di mettere fine al blocco di Instagram e di altri popolari social media mentre gli iraniani stanno protestando nelle strade. Gli Stati Uniti vogliono che Teheran "apra questi siti", ha affermato il sottosegretario di stato Usa Steve Goldstein, definendo Instagram, Telegram e altre piattaforme "luoghi legittimi per la comunicazione".

Trump non ha ancora deciso su una questione cruciale per l'Iran e, in primo luogo per il presidente "riformatore" Hassan Rohani: la fine delle sanzioni prevista dall'accordo sul nucleare. Le radici della rivolta in corso in Iran affondano nella grave crisi economica che investe il Paese e che, in buona misura, è determinata dalle sanzioni ancora vigenti. Annota in proposito su Internazionale Gwynne Dyer: "Il problema principale è che, nonostante l'accordo del 2015 che poneva fine alla maggior parte delle sanzioni internazionali contro l'Iran in cambio di rigidi controlli sulle ricerche e la tecnologia nucleari del Paese, le sanzioni finanziarie statunitensi rimangono in vigore.

Questo ha fatto sì che la maggior parte delle banche rimanga diffidente quando si tratta di gestire denaro proveniente dall'Iran o di concedere prestiti alle sue aziende, e quindi i benefici economici promessi dall'accordo non si sono mai concretizzati...". L'ala moderata e aperturista del regime iraniano non ha fin qui incassato alcun dividendo dall'accordo sul nucleare e questa è una delle critiche più forti che i manifestanti fanno al presidente.

L'inquilino della Casa Bianca ne è consapevole ed è per questo che usa la sua firma come un potente strumento di pressione su Teheran. "Grandi proteste in Iran. La gente finalmente ha capito che i loro soldi e il loro benessere viene sperperato per il terrorismo".

Così nei giorni scorsi Trump aveva commentato su Twitter le manifestazioni in Iran. Soldi sottratti alla crescita dell'Iran e investiti per sorreggere il regime di Bashar al-Assad in Siria e per sostenere i movimenti sciiti in Medio Oriente: primo fra tutti Hezbollah libanese che, secondo fonti indipendenti di Beirut, avrebbe ricevuto solo nel 2017 finanziamenti diretti dall'Iran tra i 700 milioni e il miliardo di dollari. Le nuove sanzioni minacciate da Donald Trump contro l'Iran potrebbero colpire i Guardiani della rivoluzione (Pasdaran), una forza che risponde solo al leader supremo, l'ayatollah Ali Khameney. In tal modo si eviterebbe di danneggiare gli iraniani che stanno manifestando. A scriverlo è il Wall Sreet Journal, citando dirigenti Usa. «L'Iran sta collassando su tutti i fronti nonostante il terribile accordo (sul nucleare) siglato dall'amministrazione Obama - scrive il presidente - Il grande popolo iraniano è stato oppresso per tanti anni. La gente è affamata di cibo e libertà. Assieme ai diritti umani la ricchezza della nazione è stata depredata", aveva twittato nei giorni scorsi Trump.

Per i falchi dell'amministrazione Usa, Rohani più che un interlocutore è un elemento di ambiguità che non permette di svelare al mondo che ciò che è irriformabile è proprio il regime teocratico-militare che detiene le leve del potere in Iran. In questo scenario, Rohani dispone di un margine di manovra alquanto limitato per rispondere alle richieste dei "rivoltosi" e questo perché il presidente non può prendere tutte le decisioni direttamente. "Rohani può fare il gioco dei conservatori adottando misure repressive", rileva Thierry Kelner, autore de "La storia dell'Iran contemporaneo" e docente all'Università libera di Bruxelles. Ma se si orientasse in tal senso, quello del pugno di ferro, ciò comporterebbe, sottolinea Kelner, "l'impossibilità di applicare il suo programma economico e sui diritti umani".

A ciò va aggiunto, rileva sempre il professor Kelner, che se adottasse la linea dura contro i manifestanti, "questa opzione rischierebbe di compromettere l'immagine di Rohani a livello internazionale e presso alcuni circoli americani". In realtà, è la sua conclusione, in Iran vige una diarchia al potere e in essa Rohani è il "numero due", perché in cima alla catena di comando, economica e militare, resta la Guida suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei. Con l'accordo sul nucleare, l'Occidente, inteso come Europa e gli Usa di Obama, avevano puntato su Rohani per innescare un processo di democratizzazione dell'Iran che facesse leva anche sulla crescita economica. Con Trump, questa prospettiva non ha più ragion d'essere. Non c'è l'America dietro la protesta che infiamma l'Iran, ma di certo l'inquilino della Casa Bianca sembra preferire un "Nemico" sicuro, Khamenei con i suoi Pasdaran, ad un chierico riformatore che non rientra nello schema semplificatorio amico/nemico".

A Teheran – osserva Bernard Guetta, tra i più autorevoli analisti francesi di politica estera - è in gioco il rapporto di forze tra i due schieramenti del regime e soprattutto il modo in cui gli iraniani usciranno da una teocrazia che non sopportano più da molto tempo. Per chi, a differenza di Trump, preferisce la scommessa di una liberalizzazione alla certezza di un inasprimento che potrebbe portare a violenze spaventosamente simili a quelle siriane, è meglio sperare che Rohani conservi il controllo della situazione con il mix di fermezza e apertura politica di cui ha dato prova negli ultimi giorni". Ma The Donald non sembra essere di questo avviso. Resta il fatto che Rohani e i suoi uomini al governo, sottovalutando un crescente malessere sociale (con la disoccupazione schizzata al 12%, con quella giovanile che ha raggiunto il 29%) un mese fa hanno presentato la legge di Bilancio 2018, che prevede l'aumento del 70% del prezzo della benzina, + 40% di luce e gas, triplicata l'imposta sui viaggi all'estero, abolizione dei sussidi governativi diretti per 20 milioni di persone, vale a dire un quarto della popolazione dell'Iran. E tutto questo mentre i giornalini riempivano pagine sulla ricchezza "smodata" di alcuni ministri.

Da Washington a Gerusalemme. Israele è indubbiamente tra i più attenti osservatori delle vicende iraniane. E lo è tanto più da oggi, visto che il servizio di sicurezza interno dello Stato ebraico, lo Shin Bet, ha reso pubblico di aver scoperto che l'intelligence iraniana sta operando in Cisgiordania. Tre palestinesi sono stati arrestati e l'attenzione si è concentrata soprattutto su un ventinovenne, esperto di computer. Mohammed Maharmeh, residente nell'area di Hebron. Stando allo Shin Bet, Maharmeh era stato reclutato dall'intelligence iraniana attraverso un parente, Bahar Maharmeh, che vive in Sud Africa.

Lo Shin Bet rimarca che "l'intelligence iraniana usa il Sud Africa come base privilegiata per individuare, reclutare e rendere operativi agenti contro Israele. Mohammed Maharmeh ha a sua volta reclutato altri due palestinesi –Nur Maharmeh e Diaa Sarahana. Ambedue ventiduenni e anche loro residenti a Hebron. Per questo lavoro di reclutamento, Mohammed Maharmeh avrebbe ricevuto, sempre secondo il servizio di sicurezza interno israeliano, 8.000 dollari dall'Iran. "Shin Bet e Idf (le Forze di difesa israeliane, ndr) hanno scoperto e neutralizzato una cellula terroristica che operava sotto la regia dell'intelligence iraniana", afferma il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.

"E la riprova – aggiunge Netanyahu – che l'Iran sta orchestrando il terrorismo contro Israele, con cellule autonome o finanziando organizzazioni terroristiche come Hamas e la Jihad islamica". Una ragione in più, per Israele, di sostenere le proteste anti-regime in corso in Iran. Quanto a Trump, il presidente Usa è sempre più intenzionato a muoversi sulla base dell'assunto: "Stai con me o non ti pago".

Ciò vale per l'Iran. Ma anche per l'Onu. E ora anche il Pakistan, e tra breve toccherà pure ai palestinesi e in un futuro prossimo all'ingrata Europa. Non mi dai ragione? E allora non ti pago. E' la "legge di Donald" che si abbatte, inesorabile, su organismi internazionali e su chi, in Medio Oriente, pensa di poter avere un'autonomia decisionale senza coperture finanziarie. La "diplomazia del dollaro" si fa strada tra conflitti irrisolti, negoziati istradati da tempo su un binario morto, alleati ancora orfani di Barack Obama. È l'"America First" su scala planetaria. Il presidente Usa ha minacciato via Twitter di tagliare i fondi anche ai palestinesi per il loro rifiuto di colloqui di pace con Israele dopo il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di quel Paese.

"Non è solo al Pakistan - ha cinguettato il tycoon - che paghiamo miliardi di dollari per nulla, ma anche per molti altri Paesi. Ad esempio, paghiamo ai palestinesi centinaia di milioni di dollari all'anno e non otteniamo alcun apprezzamento o rispetto. Non vogliono neppure negoziare un trattato di pace con Israele necessario da molto tempo". "Noi abbiamo tolto dal tavolo Gerusalemme, la parte più dura del negoziato, ma Israele, per questo, avrebbe dovuto pagare di più. Ma con i palestinesi non più desiderosi di colloqui di pace, perché dovremmo fare loro uno qualsiasi di quei massicci pagamenti futuri?", ha aggiunto. Nel 2016, gli Stati Uniti hanno versato 319 milioni di dollari di aiuti ai Palestinesi attraverso la loro agenzia di sviluppo (USAID). Denaro pesante per l'Autorità nazionale palestinese la cui sussistenza dipende in gran parte dagli aiuti internazionali. Ma l'aut aut di Trump, invece che dividere sembra ricompattare le varie fazioni palestinesi. "Gerusalemme non è in vendita. Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato di Palestina e non può essere venduta per oro o miliardi", afferma da Ramallah il portavoce dell'Anp Nabil Abu Rudeina. "Noi – aggiunge Rudeina – non ci siamo mai opposti alla ripresa dei negoziati, ma essi devono essere fondati sul diritto internazionale e le risoluzioni (dell'Onu) che riconoscono uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale".

"Noi non cederemo a questo ricatto", gli fa eco Hanan Ashrawi, una dei responsabili dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). "Dove non arriva con le armi, il presidente Usa pensa di poter arrivare con l'arma del dollari – rimarca Ashrawi, raggiunta telefonicamente da Huffpost nel suo ufficio di Ramallah.

Il presidente americano – aggiunge la leader dell'Olp – non usa la stessa moneta con Israele che continua a fare carta straccia delle risoluzioni Onu e della legalità internazionale. Il sostegno dato a Netanyahu su Gerusalemme assieme al via libera per nuovi insediamenti in Cisgiordania, hanno decretato la morte del processo di pace. E ora ecco una nuova punizione collettiva: perché quei finanziamenti che Trump vorrebbe ora cancellare riguardano soprattutto l'Unrwa (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ndr) e come primo effetto avrebbero un peggioramento della condizione di vita di milioni di palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza". E da Gaza, Hamas ha denunciato "un ricatto politico miserabile che riflette la condotta barbara e immorale americana". Dall'Iran alla Palestina, dall'Onu al Pakistan: variano gli scenari, ma non la dura "legge di Donald".

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