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Esteri

Scaricato dai Pasdaran, Ahmadinejad finisce in carcere

POOL New / Reuters
POOL New / Reuters 

Scaricato dalla Guida Suprema su pressione dei Guardiani della Rivoluzione. Perché quell'ex presidente conservatore "populista" si era spinto troppo in là illudendosi di poter veicolare la sua candidatura alle presidenziali del 2020 cavalcando il malessere sociale e denunciando i corrotti al potere. Ma la "cavalcata" di Mahmoud Ahmandinejad si è fermata molto prima del traguardo agognato: arrestato e messo ai domiciliari con la grave accusa di "sedizione".

Sul fatto che ci fosse proprio lui dietro alle prime manifestazioni di piazza scoppiate lo scorso 28 dicembre nella seconda città dell'Iran, Mashhad, erano circolate voci fin dall'inizio. Ma non avevano trovato nessuna conferma e di Ahmadinejad si sapeva ufficialmente solo che aveva intenzione di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica islamica nel 2020. Si diceva con una certa ufficialità anche che l'ex presidente contava sull'appoggio della Guida suprema, l'ayatollah Alì Khamenei, che si era schierato al suo fianco già nel 2009, quando la sua rielezione aveva portato a contestazioni di massa dei riformisti e a una durissima e sanguinosa repressione.

Di certo, Ahmadinejad non era nel cuore dei riformatori e del presidente Hassan Rohani, ma il suo arresto non è un punto a favore dell'ala "aperturista" del regime, bensì un regolamento di conti all'interno del variegato fronte conservatore, al cui centro non c'è tanto il clero sciita legato a Khamenei quanto il più pervasivo sistema militare-industriale che fa perno sui Pasdaran. All'origine della rottura sarebbe stata una dichiarazione rilasciata dallo stesso Ahmadinejad durante una visita a Bushehr, città affacciata sul Golfo Persico: "Alcuni tra gli attuali leader – aveva proclamato – vivono separati dai problemi e dalle preoccupazioni della gente e non sanno nulla della realtà sociale". Ahmadinejiad non aveva fatto nomi, e questo ha segnato la sua condanna. Perché non rivolgendo i suoi strali contro il solo Rohani, l'ex presidente avrebbe generato l'ira degli uomini vicini alla Guida suprema, che si sono sentiti chiamati in causa pur senza essere nominati. Insomma, Ahmadinejiad ha creduto troppo in sé stesso, pensando di poter giocare in proprio la partita del potere.

Intanto il Parlamento iraniano si è riunito a porte chiuse per una seduta dedicata alle recenti violente proteste che hanno scosso il Paese e mentre sono in corso altre manifestazioni contro il governo. I deputati hanno ascoltato il ministro dell'Interno Abdolreza Rahmani Fazli, il titolare dei servizi Mahmoud Alavi, e il segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale Ali Shamkhani. Alcuni hanno espresso preoccupazione per i controlli su internet messi in atto durante i disordini, compreso il divieto della più popolare app di messaggistica in Iran, Telegram, che gli inquirenti hanno detto che erano stati utilizzati per incitare alla violenza. "Il Parlamento non è favorevole a mantenere il filtro di Telegram, ma deve impegnarsi a non essere usato come strumento dai nemici del popolo iraniano", ha affermato Behrouz Nemati, portavoce del consiglio di presidenza del Parlamento.

In discussione non è la linea della fermezza, evocata da Rohani e messa in pratica dai Pasdaran e dall'esercito fedele a Khamenei. Lo scontro vero, tra riformatori e conservatori, riguarda la risposta da dare al malessere sociale che ha innescato le proteste di piazza. È su questo che Rohani gioca la partita decisiva. I conservatori lo sanno bene ed è per questo che nelle sedute precedenti in Parlamento hanno affossato alcune misure ritenute necessarie dal governo per arrestare l'inflazione e rimettere in moto l'economia. E alla guida dei contestatori del governo è Ali Larijani, presidente conservatore del Parlamento, eletto con 179 voti su 290, contro i 103 del suo avversario riformista, Mohammad Reza Aref, molto vicino a Rohani.

Ahmadinejiad aveva pensato di poter rappresentare la carta vincente giocata dai conservatori contro i riformatori in vista delle elezioni del 2020, ma così non è stato. E questo per la semplice ragione che oggi, rispetto a dieci anni fa, l'Iran non è governato oggi da una teocrazia bensì da una holding che fa dell'intransigenza fondamentalista il suo paravento ideologico utile a nascondere gli interessi miliardari che reggono un regime islamista-militare. A questo sistema, l'ex sindaco di Teheran non era più funzionale, se mai lo è stato. Certo, nei suoi trascorsi giovanili c'è la militanza nei Guardiani della Rivoluzione, così come sono rimaste impresse nella memoria storica le sue invettive contro Israele venate da un potente antisemitismo. Di riformatore, Ahmadinejiad non aveva proprio niente ma neanche dell'affarista dedito alla bella vita e pronto a corrompere e ad essere corrotto. La sua emarginazione, accompagnata o meno dal carcere, apre uno squarcio sui giochi di potere all'interno del regime che accompagnano, ma non coincidono, con le proteste che hanno segnato l'inizio del nuovo anno in Iran.

Nonostante i vecchi trascorsi, Ahmadinejiad era diventato un ingombro anzitutto per i suoi vecchi sodali: i Pasdaran. Il "j'accuse di Bushehr" lanciato da Ahmadinejiad è suonato come un campanello d'allarme per i Guardiani della Rivoluzione, chiamati in causa dai manifestanti. Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il 40% dell'economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un'ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rohani. I Pasdaran fanno direttamente capo alla Guida Suprema della Repubblica islamica dell'Iran, l'Ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida Suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell'economia.

La Setad di Khamenei, ovvero "Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam", "Sede per l'esecuzione degli ordini dell'Imam", rimarca Alberto Negri, tra i più validi conoscitori del pianeta-Iran, "fu costituita nel 1989 dall'Imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l'Iraq (un milione tra morti e invalidi). All'epoca dello Shah 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhevi controllavano l'80% dell'economia che oggi è passata nelle mani dell'élite al potere. Doveva rimanere in vita solo un paio d'anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare – 52 miliardi di asset – che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all'allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno. Le Bonyad, le Fondazioni esentasse, sono il cuore dell'economia: detengono almeno il 30-40% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche...".

Se si somma il potere diretto di Kamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della "Pasdaran Holding", si ha un quadro sufficientemente dettagliato per comprendere la posta in gioco oggi in Iran; un quadro che Marina Forti su Reset arricchisce di un antefatto che precede di qualche settimana le prime manifestazioni di piazza: "In dicembre il governo ha presentato al Parlamento la sua legge finanziaria, perché sia approvata come di consueto prima della fine dell'anno (il capodanno persiano cade il 21 marzo). Questa volta però il presidente Rohani ha illustrato la sua finanziaria lasciando trapelare anche elementi di solito riservati: per la prima volta ha rivelato i finanziamenti miliardari che vanno a fondazioni religiose, a istituzioni controllate dalle correnti più oltranziste dello Stato, ai militari. Gli iraniani così hanno appreso non solo che il budget militare è aumentato di circa il 20 per cento (all'equivalente di 11 miliardi di dollari), ma che continua a crescere il budget destinato a istituzioni parallele dello Stato, ad esempio per i rappresentanti della Guida suprema nelle università, o le più potenti fondazioni religiose (ad esempio i fondi per l'istituto di un ayatollah ultraconservatore, Mohammad Taghi Messbah-Yazdi, sono aumentati otto volte in dieci anni): tutte istituzioni che possiedono imprese e beni immobiliari ma sono ampiamente esentasse (i tentativi del governo Rohani di tassarle finora sono stati pressoché vani). Per contro, la finanziaria prevede di eliminare i sussidi in contanti che vanno a milioni di famiglie, di aumentare il prezzo del carburante, privatizzare parte delle scuole pubbliche. Già fa discutere una tassa sugli espatri, con cui lo Stato cerca di raggranellare un po' di entrate...".

Quelle rivelazioni scatenarono una tempesta d'indignazione sui social media. Una indignazione che poco tempo dopo è tracimata nelle strade di 74 città iraniane. Il governo di Rohani, ricorda Forti, è riuscito a tenere sotto controllo l'inflazione (toccava il 40 per cento alla fine del mandato di Ahmadiejad, ora è stabilizzata intorno al 10 per cento), ma non a rilanciare l'economia nella misura che gli iraniani si aspettavano. L'accordo sul nucleare aveva suscitato aspettative enormi: finite le sanzioni, tolti gli ostacoli all'export di petrolio, sarebbero tornati gli investimenti e l'economia sarebbe rifiorita.

Le sanzioni sono in effetti finite, formalmente, ma le banche iraniane restano bandite dal sistema bancario degli Stati Uniti, e questo basta a rendere molto riluttanti anche le banche europee. Alcune grandi imprese sono tornate in Iran (le francesi Total e Renault), ma per il resto si sono affacciate solo piccole e medie imprese europee. Per avere le risorse necessarie per rimettere in moto l'economia, Rohani dovrebbe tagliare se non azzerare i miliardi di dollari che ogni anno finiscono nelle "tasche" di Hezbollah libanese, di Hamas in Palestina, degli Houthi sciiti in Yemen, e del regime siriano di Bashar al-Assad. Ma muoversi su questa strada, concordano analisti indipendenti a Teheran, vorrebbe dire andare allo scontro frontale con i Pasdaran. Non sembra un caso che l'ultimo a denunciare il presunto ruolo di fomentatore della rivolta svolto da Ahmadinejiad, sia stato proprio il comandante dei Guardiani, Mohammad Ali Zhafari. Dopo di che, l'arresto. Ai Guardiani non interessa chi fa il Presidente. L'importante è che non intacchi la loro holding. Chi lo fa, deve guardarsi le spalle.

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