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Politica

Processo sulla trattativa Stato mafia, Nino Di Matteo: "Da Scalfaro grande attivismo e chiare falsità"

ANSA
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"Dopo la strage di Capaci, anche sull'onda emotiva di questo evento, viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che con il suo attivismo e le sue decisioni non si è limitato al suo ruolo di arbitro. Anzi, è stato il principale attore delle decisioni che in questo processo abbiamo dimostrato: la nomina di Mancino al posto di Scotti, quella del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli. Il ruolo di Scalfaro nell'avvicendamento tra Scotti e Mancino ha fatto emergere evidenti reticenze e falsità delle dichiarazioni del presidente Scalfaro, sentito da questa Procura nel 2010". Lo ha detto il pm Nino Di Matteo, proseguendo la sua requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

Parlando davanti alla Corte d'assise il magistrato ha proseguito: "Scalfaro addirittura dichiarò - ha detto - di non sapere nulla dell'avvicendamento al Dap tra Amato e Capriotti. Ci disse anche che non aveva mai saputo nulla della connessione tra il 41 bis e gli episodi stragisti". Secondo Di Matteo "la falsità delle dichiarazioni di Scalfaro" viene dimostrata anche da ciò che ha dichiarato un altro ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 28 ottobre 2014: "Dopo gli attentati del 1993 i discorsi tra le più alte cariche istituzionali dello Stato - ha ricordato Di Matteo le parole di Napolitano a verbale - era chiaro che quelle bombe corrispondevano a un ricatto dell'ala corleonese di cosa nostra". L'accusa sostiene che la strategia per addivenire ad un accordo era quella di spostare l'asse politico verso un'altra corrente - quella della sinistra democristiana- a cui apparteneva il ministro Mannino che era stato tra i fautori della linea del dialogo.

"Per fare questo era necessario - ha aggiunto Di Matteo - spezzare l'asse della fermezza portato avanti dall'azione congiunta dei ministri dell'Interno e della Giustizia, Scotti e Martelli. Di fronte all'intrapresa linea del dialogo - ha sostenuto - non poteva sopportare la presenza di Vincenzo Scotti, principale fautore della linea di fermezza nel contrasto a cosa nostra, al vertice dell'Ordine pubblico".

Il pm: "Canali di comunicazione tra Riina, Dell'Utri e Berlusconi". È ripreso dalle parole dette dal boss Totò Riina agli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera e dalle conversazioni intercettate nel 2013 tra il boss e il compagno di detenzione Alberto Lorusso, la requisitoria del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

A ricordare le esternazioni in carcere del boss, imputato al dibattimento e morto un mese fa, è il pubblico ministero Nino Di Matteo, che ha preso la parola davanti alla corte d'assise di Palermo che celebra il processo sul presunto patto tra pezzi delle istituzioni e la mafia negli anni delle stragi.

Di Matteo ricorda quando il capomafia, da anni recluso al 41 bis e in grado di parlare solo coi familiari una volta al mese, disse a una guardia penitenziaria: "è stato lo Stato a venirmi a cercare". Per il magistrato il riferimento è proprio alla trattativa avviata, in un primo momento, secondo l'accusa, dai carabinieri del Ros con il padrino corleonese.

"Riina non immaginava di essere intercettato, altrimenti non avrebbe discusso di argomenti relativi ai suoi familiari e del suo patrimonio, parlando anche di beni intestati a prestanomi che non sapevamo essere suoi, né avrebbe espressamente minacciato di morte alcuni pm di questo processo", precisa Di Matteo che difende la genuinità delle esternazioni di Riina nel corso delle conversazioni con Lorusso.

"Ci sono momenti in cui Riina nega tutto in conformità alla sua abitudine e momenti in cui si lascia andare a esternazioni importanti", spiega Di Matteo che ribadisce più volte come al padrino corleonese il dibattimento trattativa stesse particolarmente a cuore.

Il magistrato ripercorre le conversazioni in cui Riina manifestava perplessità nei confronti di Provenzano, il sospetto, che stentava a confidare anche a se stesso, di essere stato tradito da lui e le rivelazioni del boss sugli attentati a magistrati come Rocco Chinnici e Paolo Borsellino: anche questi elementi che proverebbero che il detenuto parlava senza timore di essere "ascoltato".

Un cenno anche ai riferimenti che il capomafia intercettato faceva a Berlusconi: "in qualche modo mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l'ho cercato più": sono le parole riportate da Di Matteo. "Nei dialoghi, poi, il boss più volte - ricorda il magistrato - parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare Dell'Utri", l'ex senatore di Forza Italia pure tra gli imputati al processo.

Secondo Di Matteo "Riina dimostra di essere consapevole dei rapporti che i fratelli Graviano avevano per i loro canali con l'imprenditore e poi politico Berlusconi. Alterna momenti di sincera confidenza con dei momenti in cui invece assume ufficialmente la parte di chi non sa nulla".

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