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Politica

Ufficiale il No di Liberi e Uguali a Giorgio Gori. Mandato a Grasso di trattare con Nicola Zingaretti

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Liberi e Uguali dice no a Giorgio Gori. A nulla sono valsi appelli e trattative. L'assemblea lombarda di LeU si chiude con una fumata nera: la sinistra candida alla guida della Regione l'esponente di Mdp Onorio Rosati. E gela così le speranze Dem di un aiuto al candidato renziano, nel difficile tentativo di rimonta al centrodestra.

Nel Lazio i giochi sono invece ancora aperti e sembrano portare verso un accordo: l'assemblea locale di LeU dà mandato a Pietro Grasso, presente in sala, di trattare con Nicola Zingaretti sulla coalizione. Ma il "niet" a Gori alza la tensione a sinistra. E anche il premier Paolo Gentiloni, senza andare allo scontro, apre la sua campagna elettorale rivendicando un primato al Pd: "Noi siamo la sinistra di governo, non ce n'è altri".

Il "no" in Lombardia era nell'aria. E il candidato Dem Gori ne prende atto, chiarendo che dovranno essere gli esponenti di LeU a spiegare perché hanno deciso di andare divisi, rinunciando alla speranza di battere la destra, dopo il ritiro di Roberto Maroni. "Siamo dalla parte giusta", rivendica davanti ai delegati lombardi il capogruppo Mdp Francesco Laforgia. "Non ci faremo dire che usciamo dal centrosinistra perché il centrosinistra non esiste senza la sinistra". Una standing ovation accoglie la candidatura di Onorio Rosati e chiude i giochi col Pd. In contemporanea, invece, a Roma gli esponenti laziali di LeU danno mandato a Grasso, che con la sua presenza in sala si fa garante, di verificare con Zingaretti le condizioni di una alleanza elettorale, sulla base di alcune questioni programmatiche e politiche. Perché, come ribadisce Laura Boldrini, "non si possono fare alleanze solo 'contro'".

La presidente della Camera condiziona un'alleanza post voto con il Pd a un "cambiamento di rotta" e frena anche su una possibile intesa con i Cinque stelle. Ma sui rapporti a sinistra e sulle speranze di ritrovarsi dopo il 4 marzo, è lapidario Matteo Renzi: "Che andiamo divisi alle politiche è già una risposta", dice. E già di primo mattino non si mostra affatto ottimista su un'intesa con gli ex compagni di partito: "Se c'è l'alleanza è un fatto positivo. Ma non sono in grado di influenzare un partito che notoriamente non mi ama. E' il partito di Massimo D'Alema - dice con una stoccata agli avversari - e nessuno si stupirebbe se si scoprisse che è vero che D'Alema ha detto di volermi far fuori...".

Toni più istituzionali sceglie il premier Paolo Gentiloni, con il suo primo appuntamento di campagna elettorale davanti agli amministratori Pd riuniti al Lingotto di Torino. Dopo un affondo a Roma sulla gestione del Campidoglio, dal Piemonte il premier suona la carica di una sinistra che, al governo, può vantare risultati "straordinari" sull'immigrazione e nell'aver "portato il Paese fuori dalla crisi". E, auspicando una coalizione che includa anche la Bonino, rivendica al Pd i tratti di una sinistra "di governo", diversa dalla sinistra che del governo "ha paura" e tende a "rifugiarsi nel cantuccio" di idee del passato. Un esempio? Accusare il Jobs act dei problemi del lavoro, quando il problema è "epocale, europeo e mondiale".

Il premier invita il Pd a fare una campagna elettorale giocata sulla "credibilità", sulla capacità di dare "speranza" e anche sulla "ambizione" di proporre ancora una proposta di "cambiamento" per il futuro. A partire dai risultati raggiunti.

Senza inseguire le proposte degli altri su temi come l'immigrazione ("No a chi vende fumo") o l'Europa: "Siamo convintamente europeisti, le elezioni - dice forse alludendo a Macron - si vincono su questo discrimine". Ma un nemico contro cui il Pd lotta è anche l'idea che nessuno possa vincere e si vada verso le larghe intese (magari con Gentiloni premier): "In gioco c'è il futuro. La vittoria conta" se il Pd vuole avere voce in capitolo e se il Pd non vince "non ci sono sconti".

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