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Esteri

L'ospite scomodo. Erdogan, dilagante in Medio Oriente, atteso a Roma e in Vaticano

Getty Images
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Tratta alla pari con Putin, stringe un'alleanza di ferro, lui sunnita, con l'Iran sciita, sul fronte siro-iracheno. Con l'Europa si fa garante, a suo di miliardi di euro, delle frontiere esterne, usando abilmente le comunità turche come "arma" di pressione, soprattutto per quel che riguarda la Germania. Domenica è atteso a Roma per l'incontro con Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni, e andrà in Vaticano per un colloquio, tutt'altro che formale, con papa Francesco. Può non piacere, ma Recep Tayyp Erdogan è oggi un protagonista della scena internazionale. Un protagonista che si è dimostrato capace di cambiare in corso d'opera alleanze, strategie politiche e militari, trasformare nemici passati (Putin) in solidi alleati nel presente.

Nell'offensiva avviata due settimane fa contro le milizie curde siriane, Erdogan ha avuto il via libera non solo del presidente russo ma, nei fatti, anche del suo omologo americano, quel Donald Trump che prima ha usato, e armato, le milizie dell'Ypg per combattere lo Stato islamico in Siria, salvo poi, una volta portato a termine l'impresa, garantire al "Sultano di Ankara" che Cia e Pentagono non avrebbero più sostenuto i curdi siriani. Si è detto, e a ragione, che Erdogan teme più un Grande Kurdistan che un "Califfato" islamico. È vero, ma non è tutto.

Perché quello coltivato, e praticato, dal presidente turco è un disegno, neo-ottomano, di potenza che va ben oltre la costruzione di una "fascia di sicurezza" ai confini turco-siriani da affidare al fedele Esercito libero siriano (Els). Certo, Erdogan non è disposto ad accettare una regione (Rojava) indipendente, come di fatto è ora, che minaccerebbe la stabilità turca incoraggiando l'etnia curda alla rivolta. Il Partito Democratico Curdo di Siria (PYD) del resto è alleato del Partito curdo dei Lavoratori (PKK) che da anni lotta per l'indipendenza della regione curda di Turchia. Per questo i raid aerei e dell'artiglieria turca contro "i terroristi" nell'énclave curda di Afrin, nel nord-est della Siria, potrebbero rappresentare solo l'inizio di una più vasta operazione contro le Forze Democratiche Siriane (FDS), alleanza tra le milizie del PYD (Forze di Protezione Popolare – YPG) e milizie tribali arabe sostenute con forniture di armi e qualche migliaio di consiglieri militari dagli Stati Uniti.

Va ricordato che l'operazione "Ramoscello d'ulivo", è stata lanciata dopo che, domenica 14 gennaio, la coalizione internazionale, a guida americana, aveva annunciato di stare lavorando con i propri alleati siriani per istituire una nuova Forza di Sicurezza di Confine (BDF), composta da 30 mila persone, la metà delle quali sarebbero state veterani della Syrian Democratic Forces (SDF). Ankara aveva definito tale programma "inaccettabile" e, il giorno successivo, il 15 gennaio, aveva iniziato a potenziare le proprie truppe al confine con la Siria, inviando alcuni convogli militari nel territorio meridionale del Paese, al fine di "liberarlo dal terrorismo".

Asia Abdullah è la leader dei partiti d'opposizione del Rojava. Di questa regione fa parte Afrin, oltre a Kobane e al-Qamishli, un territorio che i curdi e i loro alleati hanno liberato dall'Isis, ma dove da dodici giorni sono in corso attacchi da parte di forze di terra e aeree turche che sta provocando numerose vittime tra i civili. Asia Abdullah ha raccolto in un video la testimonianza telefonica resa ieri in Senato: "Qui è in corso un genocidio nell'indifferenza di tutti", è il suo disperato grido d'allarme. Che si perde nel vuoto della realpolitik.

Quanto a Mosca, il via libera all'attacco turco è un modo per svelare l'inconsistenza del bluff americano. Mostrare al mondo che l'alleato scelto da Washington è tranquillamente attaccabile è una grande vittoria russa, ottenuta peraltro senza sparare un solo colpo. Erdogan ha avuto un timido, ma indicativo, assenso da parte dell'amministrazione Trump che ha abbandonato i Curdi al loro destino, come peraltro già fatto negli anni Novanta in Iraq, dopo la prima Guerra del Golfo. La conferma è arrivata attraverso la nota del Segretario alla Difesa James Mattis, che si è premurato di sottolineare come i turchi abbiano preventivamente avvisato la Casa Bianca dell'attacco, ed è presumibile dalle dichiarazioni del ministro degli Esteri britannico (il Regno Unito sembra l'unico vero alleato rimasto fedele agli Stati Uniti) che ha definito l'opzione militare un diritto della Turchia per la sua stessa sicurezza. Ma l'obiettivo di Erdogan va oltre la resa dei conti finale con i curdi in Siraq: essere al tavolo, e in prima fila, di una "Yalta mediorientale": uno dei "dominus", assieme a Putin, Trump, Macron.

Erdogan sfrutta le debolezze altrui per rafforzare le mire turche. Sa che l'America, al di là dei bellicosi "cinguettiii" di Trump, non intende mostrare i muscoli in Medio Oriente, facendosi garante degli interessi dei due suoi più fedeli alleati nella regione: Israele e Arabia Saudita. Ecco allora il Paese che detiene il secondo esercito della Nato, dopo quello statunitense, comprare sistemi missilistici dalla Russia, stringere un patto con l'Iran (lo "Stato del terrore" nella dottrina Trump sulla sicurezza nazionale), e garantire protezione al governo sciita di Baghdad contro i disegni indipendentisti nel Kurdistan iracheno. Nel far questo, Erdogan dà sostanza ai disegni imperiali neo-ottomani, partendo proprio dalla Siria, e dal "patto di Sochi" stretto con Putin, oggi per mettere sotto tutela Bashar al-Assad e in un futuro prossimo gestire la sua uscita di scena.

"La "tela" tessuta da Erdogan arriva fino nel cuore dell'Europa: la Francia. Nel contesto europeo "Macron e Parigi emergono come gli attori più efficienti. I rapporti profondamente negativi instaurati da Ankara con Berlino e Washington hanno aperto un importante spazio di azione politica per Macron", afferma l'analista e politico Ali Yurttagul in un articolo sul quotidiano Ahval, scritto in occasione della visita di Erdogan all'Eliseo lo scorso 5 gennaio. Per l'esperto, a livello economico, la possibilità di prendere parte nei "grandi progetti" - dal settore della difesa a quello energetico - all'ordine del giorno nella Turchia di Erdogan è il movente più importante per Parigi. Ieri a margine della visita del capo dello Stato turco a Parigi è stato firmato un accordo per lo sviluppo di un sistema di difesa aerea a lungo raggio, affidato al consorzio franco-italiano Eurosam. Il secondo movente, invece, è di ordine più "pragmatico". "Macron ritiene che dialogare con Erdogan possa far compiere passi in avanti in questioni come la libertà di stampa, con un pragmatismo simile a quello dimostrato nei rapporti con Paesi come la Cina e l'Iran", aggiunge Yurttagul. "Questo pragmatismo potrebbe forse portare alla scarcerazione di uno o due giornalisti, ma non aiuterà né a migliorare la libertà di stampa e nemmeno lo Stato di diritto".

Il presidente francese prova a moderare il suo omologo turco: "Se si dovesse verificare che questa azione di contrasto a una potenziale minaccia terroristica alla frontiera turca si è trasformata in un'invasione (della Siria), a quel punto questa operazione (turca) ci porrebbe problemi molto seri", avverte Macron dalle pagine de "Le Figaro". Ma siamo solo agli avvertimenti, ad un invito alla moderazione. D'altro canto, la tela del ragno di Erdogan coinvolge direttamente le comunità turche in Europa - dalla Germania (1,43 milioni i turchi registrati nelle liste elettorali) all'Olanda ( 252.864) , dalla Francia (326.378) al Belgio (108.565), dalla Svizzera (95.266) all'Austria (108.565) - considerandole parte integrante di sorta di "umma" neo-ottomana, una massa di manovra da usare, nei momenti critici, per forzare le scelte dei Governi nazionali europei, orientandole in una direzione pro-Ankara, facendone anche un significativo bacino elettorale per i partiti meglio disposti verso la Madre patria turca.

Nulla è lasciato al caso, come dimostra la campagna sul referendum costituzionale che ha consegnato al Presidente poteri che mai in passato la Turchia aveva costituzionalmente affidato nelle mani di un solo uomo, neanche al padre della patria, Kamal Ataturk. Il rapporto con le comunità all'estero è parte essenziale dell'agire politico di Erdogan e del suo partito islamonazionalista, l'Akp. Sul piano quantitativo, i turchi rappresentano la seconda comunità in Germania, Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Bulgaria. Una struttura verticale e centralizzata si occupa di tessere i legami con i capi delle varie comunità, finanziarne le attività, con l'obiettivo di rinsaldare i rapporti identitari con la Madre patria. Non è un discorso religioso, o comunque il richiamo all'islam non ne rappresenta la parte più pervasiva: la Turchia di Erdogan non è l'Arabia della dinastia Saud. L'obiettivo è fortemente politico, e punta alla determinazione di un percorso che tenga assieme integrazione e diversità, il sentirsi, al tempo stesso, "tedesco", o olandese ma sempre e soprattutto turco.

"I turchi all'estero dovrebbero restare turchi a prescindere dalla loro cittadinanza", ha proclamato Erdogan, spingendosi fino al punto di definire l'assimilazione un "crimine contro l'umanità" e sollecitando la creazione di licei turchi in Germania. Ankara, che recentemente ha creato un Ufficio per i turchi all'estero nel consiglio dei ministri, ha esortato i turchi della diaspora ad agire negli interessi turchi, svolgendo una sorta di servizio all'estero per il bene della collettività. Un progetto ambizioso, che esalta la "grandezza ottomana" e l'aggiorna con i disegni di potenza che la Turchia dell'oggi cerca di realizzare guardando ad Oriente e tenendo sotto scacco l'Occidente.

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