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Politica

Il finale rattoppato

Alessandro Bianchi / Reuters
Alessandro Bianchi / Reuters 

Il finale rattoppato è solo una foto, con Berlusconi nei panni del vecchio zio che si atteggia ancora a leader con i nipoti inquieti. E li rassicura, promettendo fedeltà qualunque sia l'esisto del voto: "Ciascuno di noi – scandisce - ha preso l'assoluto impegno di non aprire a degli inciuci o ad altre coalizioni se non raggiungiamo la maggioranza". Alla sua destra Giorgia Meloni si compiace, perché comunque lo scatto finale è anche un suo successo: "Quindi alla fine siamo riusciti a fare la manifestazione anti-inciucio!". Annuiscono Matteo Salvini e Raffaele Fitto, seduti alla sinistra del Cavaliere.

Al tempio di Adriano, in piazza di Pietra, va in scena uno show unitario, la cui traduzione italiana potrebbe essere "messinscena", per fotografi e telecamere, non un evento politico, al termine di una campagna da "separati in casa". Non farlo avrebbe creato un caso, dopo che l'ultimo incontro dei tre risaliva alla famosa foto sotto l'albero di Natale ad Arcore, ai tempi dell'accordo sulle liste e sulle quote. Complicità ostentata, sorrisi che sembrano veri, un'orgia di retorica unitaria, il richiamo al programma, entità metafisica per tutta la campagna elettorale, neanche fosse il Vangelo. Dopo un'oretta di una specie di conferenza stampa senza domande, ognuno va verso la propria chiusura di campagna elettorale in piazza o in tv.

Solita claque per il Cavaliere, con coretto finale "un presidente c'è solo un presidente", "Silvio Silvio", e qualche bionda appariscente a cui non viene concesso l'onore di avvicinarlo all'uscita. Si sa, Berlusconi è incapace di concepire se stesso se non come padre padrone del centrodestra. E in questi casi dà il meglio di sé, show nello show, con picchi messianici. Sua la prima, sua l'ultima parola: "L'unica coalizione che potrà garantire un governo forte e stabile e solo quella del centrodestra, formata da questi quattro eroi della libertà e della democrazia. Andate e convertite gli infedeli".

Tra l'inizio e la fine fa il presentatore, interrompe con battute, annuisce, è così calato nella parte che guarda tutti come se fossero figli suoi. Siparietto: eccolo cacciarsi un fazzoletto dal taschino, e passarlo sulla fronte di Salvini quando il leader della Lega racconta dei trecento comizi e dei oltre millecinquecento chilometri percorsi. Altro siparietto: eccolo annuire, "bravo Matteo", alle battute su Renzi che fa training autogeno e non gli riesce, la Boldrini. È così calato nel ruolo che, come se il tempo non fosse passato, annuncia che è già pronto il primo provvedimento che sarà portato al primo consiglio dei ministri: "Toglieremo ogni tassa e decontribuzione alle aziende che assumono un disoccupato". Sembra che gli alleati non fossero a conoscenza del coniglio cacciato dal cilindro, a giudicare dalla nonchalance con cui la proposta viene fatta cadere. Con altrettanta nonchalance nessuno si sofferma su come "abolire la Fornero" o approfondisce il far west salviniano sulla "difesa che è sempre legittima se mi entri in casa", a qualunque ora del giorno e della notte.

Brusii in sala verso la fine. Sono dieci minuti che Berlusconi sta leggendo "gli effetti" della flat tax, "perché non me lo fanno fare in tv": "E qui – dice a un pubblico distratto – ci vuole l'applauso". Gli alleati sono quasi imbarazzati dall'interminabile filippica e a stento lo nascondono. La foto, sui giornali, sembra dare l'idea, al netto di tutto, di una "coalizione", calamita per il voto utile perché, oggettivamente, solo una vittoria del centrodestra garantirebbe la nascita di un governo espressione di una volontà popolare e non frutto di accordi, dopo, in Parlamento.

Vista da vicino è l'istantanea di una coalizione "costretta" a stare insieme, come conseguenza di un quadro politico mutato. Diciamo le cose come stanno: questa campagna elettorale di Berlusconi è iniziata con il viaggio in Europa da Juncker, col Cavaliere "riabilitato" che si propone come perno "moderato" per le larghe intese contro i "lepenisti", e termina con una foto assieme alla Meloni e Salvini, sia pur senza entusiasmo, convinzione, come una scelta subita. Dall'inciucio all'anti-inciucio, per dirla con gergo abusato. In mezzo c'è la sensazione del crollo elettorale del Pd e, al tempo stesso, la paura del "sorpasso" da parte di Salvini. Vanno dunque prese sul serio le parole del Cavaliere, sull'indisponibilità a larghe intese "anche se non avremo maggioranza". Parole frutto della necessità, più che della volontà. Un blocco politico elettorale maggioritario al Nord e con 270-280 parlamentari è un granitico punto di partenza nella trattativa dura sul governo ed è difficile che possa rompersi al buio, anche se non riuscisse nell'impresa. Tra qualche mese si vota in Friuli, il prossimo anno in Piemonte e alle Europee, tra due anni in Liguria e Veneto. Il Cavaliere non ha più la forza di un tempo, ma capisce bene l'aria che tira. Sarebbero i suoi per primi, sul territorio a mollarlo se rompesse con Salvini. Al momento non c'è alternativa realistica all'ipocrisia delle foto.

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