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Cultura

Il primo regista trans nominato agli Oscar: "Il mio doc su mio fratello morto di razzismo"

YANCEVILLE FILMS
YANCEVILLE FILMS 

Quando il successo nasce da una grave perdita, esso porta con sé un senso di disagio. Tutti quei nostri mantra riciclati sul karma, la fortuna e le avversità paiono indicare che a un certo punto i nostri guai avranno fine — e che verremo premiati per ciò che abbiamo dovuto sopportare.

Per alcuni versi "Strong Island", di Yance Ford, costituisce un'intensa confutazione di tali supposizioni. Il film — uno sguardo sobrio alla distruzione apportata nella famiglia di Ford dopo la morte del fratello William Ford Jr, ucciso dal fuoco di un meccanico diciannovenne — spiega come quel trauma s'infetti e a volte finisca per uccidere. Ma per altri versi lo stesso Ford avvalora quel genere di Karma che spesso tendiamo a romanticizzare: lui è un realista diligente ma combattuto che ha trasformato i propri giorni più bui in un'opera d'arte cinematografica.

HuffPost ha incontrato Yance Ford per parlare delle emozioni contrastanti che sta vivendo in questo momento — in cui la tragedia più grande della sua famiglia è anche il tema di un film diffusamente acclamato. Film che lui si augura possa aprire la porta ad altri cineasti, permettendo anche a loro, analogamente, di raccontare le proprie verità.

L'intervista è stata editata per renderla più chiara e breve.

Credo che "Strong Island" sia un progetto ambizioso che propone ragionamenti importanti sui sistemi che falliscono e le società che incespicano. Ma tratta anche temi di natura più intima, della gente e del modo in cui quei sistemi vanno personalmente a incidere su di noi. Vorrei che fossi tu a dirmi che cosa t'eri prefisso di ottenere con quest'opera.

In "Strong Island" si fa notare come la storia dello spaventoso omone nero sia in realtà vecchia quanto l'America stessa, e che per quanto la si possa osservare nei casi più recenti, da Trayvon Martin ai miriadi di altri che si verificano frequentemente in giro per gli stati, abbiamo ormai perso il conto di quelli che sono stati gli analoghi incidenti del passato. Ciò che "Strong Island" si prefigge di fare in realtà è esplorare il modo in cui questa minaccia fantasma — per citare involontariamente un film di "Guerre Stellari" — abbia rappresentato uno stop per la popolazione di colore, sin dalla fondazione di questo Paese. Il volto del pericolo, in America, è sempre stato nero. E indipendentemente dalle prove presentante nel film, che vanno a sollevare ragionevoli dubbi sulla presunta paura del colpevole — e in particolare sulla sua ragionevole paura — in quanto movente dell'uccisione di mio fratello, in realtà cominciamo a notare come l'indagine della polizia sia stata tanto marcatamente influenzata dal peso di mio fratello — dalla taglia di mio fratello — dalla frequenza con cui andava in palestra — da impedirgli di porsi, quanto al movente dell'omicida, il medesimo numero di domande che invece si son posti sulla vita di mio fratello.

Quindi il punto son tanto le domande poste sul conto mio fratello, quanto quelle che non sono state fatte in merito alla paura della persona che l'ha ucciso.

Il film prende altresì in considerazione quei momenti in cui la società civile — il sistema della giustizia penale, in quanto parte integrante della nostra democrazia — non va a garantire un giusto processo alle famiglie delle vittime uccise per "auto-difesa". Ed è per questa ragione che son convinto che la cosa più brutta, qui, sia il fatto che ventisei anni fa tutte le storie che si raccontano oggi già esistevano. E la ragione sta nel fatto che si tratta di una narrativa che affonda le radici nella storia, e che il volto della paura, in America, è stato sempre stato nero. Questo è il tema che "Strong Island" cerca d'affrontare, e scoperchiare, davanti agli occhi dello spettatore. E benché sia ambientato all'interno della mia famiglia, e c'è chi potrebbe esser tentato di descriverlo o collocarlo nella categoria delle storie di natura personale, credo che questo significherebbe chiudere volontariamente gli occhi di fronte al fatto che — specie nell'ultimo decennio — abbiamo visto una persona dopo l'altra perdere la propria vita per colpa di persone che sostenevano d'aver avvertito il bisogno d'uccidere in nome della paura per i propri cari.

Continuavo a lavorare in mezzo a quello che è sostanzialmente diventato un fiume di morti analoghe.

- Yance Ford

È stata forse la recente ondata di violenze da parte della polizia a spingerti a portare a termine il film? È stato un omicidio in particolare a motivarti, o ti eri già impegnato in questo progetto molto tempo prima?

Ho lavorato a "Strong Island" per dieci anni, quindi eravamo in fase di produzione prima ancora della nascita del movimento "Black Lives Matter". Prima ancora della morte di Trayvon Martin. E una delle cose accadute dopo la sua morte è stata il fatto che fra i miei colleghi registi — specie fra i documentaristi — c'era chi sapeva che il film era in produzione, e aveva cominciato a invocarne la necessità, dato il suo tempismo.

Sfortunatamente, come sapevo bene, e come ritengo che gli afroamericani sappiano, questo genere di morti un suo tempismo ce l'ha avuto da sempre; solo che prima non avevamo i social e i cellulari con le telecamere in grado di renderle visibili al mondo. Così continuavo a lavorare in mezzo a quello che è sostanzialmente diventato un fiume di morti analoghe. Ho tenuto la testa bassa nella consapevolezza che una volta concluso il film, sarebbe venuto alla ribalta in un mondo che intanto aveva avuto modo d'assistere — attraverso video senza interruzioni — alle morti di uomini di colore disarmati per mano di civili e ufficiali di polizia, e che questo film avrebbe contribuito a contestualizzare storicamente tali morti. Ma devo dire che il fatto d'assistere alla morte di quelle persone sui social e nei telegiornali — un qualche effetto su di me ce l'ha avuto; per non avercelo non avrei dovuto essere umano. Ma sapevo anche di dover tenere la testa bassa e concludere il film, per permettere alla storia della mia famiglia di portare il proprio contributo a una più ampia consapevolezza delle conseguenze di una giustizia penale guasta.

A tal proposito, ritengo che uno degli aspetti più importanti della pellicola sia il fatto che va a dimostrare come alla fine — indipendentemente dalle nostre convinzioni — non tutto s'aggiusti, e come le violenze della polizia si lascino dietro famiglie in lutto che spesso finiscono per esser dimenticate. Puoi parlarci di cosa ti ha portato a mostrare la sofferenza che la tua famiglia ha dovuto sopportare dopo la morte di tuo fratello?

Credo esista un mito secondo il quale, dopo un trauma, le famiglie procedano in direzione dell'elaborazione, e che poi lo superino — che in qualche modo si verifichi, a un certo punto, una specie di catarsi, ma in realtà è solo il modo grazie al quale noi, cioè la società nel suo insieme, superiamo questi omicidi. Nella mia pellicola era importante che mostrassi la parabola di ciascun personaggio, nonché il modo in cui la morte di mio fratello aveva inciso su ogni personaggio del film, a mo' di racconto ammonitore. Credo che siamo abituati a sostenere la gente sull'istante, e subito dopo, ma penso che una delle cose che dobbiamo accettare sia che le famiglie non cesseranno d'aver bisogno del sostegno da parte delle proprie comunità, per la loro salute fisica e mentale, e [non solo] — e ne avranno bisogno per il resto della loro vita. La morte di mio fratello ha ucciso mio padre. La morte di mio fratello a rubato vent'anni della vita di mia madre. La morte di mio fratello ha preso in mano la mia vita e quella di mia sorella e le ha ricollocate in luoghi che non mi sarei mai aspettato. Ed è importante che la gente veda come questi singoli eventi scatenano all'interno di intere comunità delle ripercussioni che durano una vita.

Capisco.

In secondo luogo l'importanza del parlare molto schiettamente delle indagini coi detective che si sono occupati del caso, e di quello che è stato il tentativo di rivolgersi all'assistente del procuratore distrettuale che ha seguito il caso (o meglio, che lo presenta al gran giurì) in realtà sta nel fornire una dimostrazione di come, quando la polizia non fa tutte le domande che dovrebbe, si stia sostanzialmente negando ai morti un giusto processo.

Mio fratello non è sopravvissuto a un incontro nel quale era disarmato — nel quale non aveva idea che il suo aggressore fosse presente — e la minaccia che aveva fatto al proprietario del negozio era in realtà quella di chiamare la polizia per rivelare che smerciava parti d'automobili rubate. E a proposito di polizia, credo che una delle dinamiche alle quali possiamo assistere nel corso del film è che quando ci si fissa su una versione, e s'insegue un filone d'indagine esclusivamente mirato a dimostrarne la fondatezza, ci si finisce per perdere per strada un'intera scaletta di domande.

Ad esempio, nessuno ha mai chiesto alla persona che uccise mio fratello come mai, posto che quel 19 marzo si sentisse spaventato a morte, non abbia telefonato alla polizia — o perché non si sia recato al distretto — né il 20, né il 21, il 22, il 23, il 24, e così via. Credo che tu abbia colto il mio punto. Nessuno gli ha mai chiesto come potesse albergare tale mortale paura nei confronti di mio fratello senza tuttavia avvertire di doversi rivolgere alla polizia. Aveva 19 anni. Di certo, se temi per la tua vita, corri a casa e lo dici ai tuoi genitori. Nessuno gli ha chiesto come sia stato in grado di sostenere un simile timore di venire ucciso da mio fratello per ben 24 giorni. Per poi, avendo sentito mio fratello che litigava fuori dal garage col proprietario, farsi vedere a William [suo fratello]. Avrebbe potuto restarsene all'interno del garage, o chiamare la polizia, oppure chiudere la porta, o semplicemente non farsi vedere. Ma questo non gliel'ha chiesto nessuno. Nessuno ha voluto interrogarlo in merito a quella sua paura.

Non passa giorno senza che mi renda conto di come, ad esempio, non sia più in grado di rammentare il suono della sua voce

- Yance Ford

Ho sentito dire che "l'arte nera è esercizio", e credo che quest'espressione stia a significare che anche quando si producono opere ad ampio respiro e profondamente importanti quali la tua pellicola, c'è sempre un prezzo emotivo da pagare. Mi rendo conto di come la realizzazione di questo film possa esser stata catartica, ma mi chiedo quale genere di stress emotivo tu abbia dovuto sopportare nel corso della lavorazione, trovandoti a rivivere più volte quell'esperienza da capo.

Sai, ho cominciato a lavorare a questo film a quindici anni dalla morte di mio fratello, perciò da molti punti di vista la sua morte era già entrata a far parte della mia vita quotidiana. Sapevo già bene che cosa significasse svegliarsi ogni mattina nella consapevolezza che qualcuno l'aveva fatta franca dopo averlo ucciso, senza venire neanche processato. Per quindici anni mi son svegliato ogni giorno sapendo che tutto ciò aveva cambiato la mia vita per sempre. Ed essendo un artista, nonché un artista di colore, non ho mai pensato di fare questo film per trarne una catarsi o esorcizzare in alcun modo il lutto o il dolore per la morte di mio fratello, perché ritengo che ciò presuma l'esistenza un punto d'arrivo del lutto, o del sentimento della perdita. Mentre quelle son tutte cose con le quali mi troverò a convivere per il resto della mia vita. Fare questo film m'ha aiutato a porle nella giusta prospettiva, ma non passa giorno in cui non pensi a mio fratello. Non passa giorno senza che mi renda conto di come, ad esempio, non sia più in grado di rammentare il suono della sua voce. E perciò siccome non ho niente da perdere a raccontare tutta la storia — mostrando tutta la verità — credo che si tratti di un'esperienza feroce. È un'esperienza cruda e onesta, e in realtà m'ha aiutato a realizzare un film ferocemente sincero.

Quella cruda sincerità di cui parli — soprattutto in relazione al trauma che hai esperito — è risultata vitale nella realizzazione di questa pellicola. Va a tingere del proprio colore ogni argomento trattato.

Se mi fossi trattenuto in alcun modo, credo che faticherei ad affrontarlo. Ma siccome nel film ci ho messo tutto — siccome non ho neanche provato a presentare mio fratello come una persona perfetta, siccome in ultima analisi non ho deciso di proteggere mia sorella lasciandola fuori dalla storia, siccome ho deciso di correre il rischio d'avvicinarmi al pubblico più di quanto non avrebbero potuto osservarmi coi loro occhi, non mi risulta di peso.

Il lavoro lo fa il film. Ti dirò cosa mi pesa, invece: a pesarmi sono tutte quelle volte che ho preso parte a una proiezione, a partire da gennaio dell'anno scorso, in cui almeno una persona s'è alzata in piedi — parlo di gente d'ogni etnia e nazionalità — per raccontare d'aver vissuto la perdita di qualcuno che è stato ucciso. Gente che ha perso qualcuno per un reato rimasto impunito: violenza domestica, o qualunque altro. In tutto il mondo ci sono persone per le quali le conseguenze della violenza rappresentano lo stato delle cose. Per loro è semplicemente la realtà. E rendersi conto di come all'interno della comunità nera questo fenomeno sia moltiplicato per dieci è una parte delle ragioni per cui son così determinato ad assicurarmi che questo film venga visto dal maggior numero di spettatori possibili.

In passato hai parlato della tua formazione, e di come tu abbia recentemente scoperto che tuo fratello era a conoscenza del fatto che tu fossi gay, e di come lui avesse cercato di proteggerti. L'ho trovato profondo, perché spesso si sente parlare di persone di colore con una particolare avversione nei confronti della comunità LGBT. Che cos'ha significato per te scoprire che tuo fratello non solo accettava la tua identità, ma che si dava da fare per farti sentire al sicuro in mezzo agli altri?

Onestamente, questo ha significato tutto. In realtà è stato davvero divertente: avevo riunito tutti gli abitanti dell'isolato in cui ero cresciuto al teatro Walter Reade, nel corso del festival "New Directors/New Films", e [gli amici di famiglia] Kevin Myers ed Harvey Walker si trovavano in mezzo al pubblico, ma alla fine erano saliti sul palco con noi per rispondere alle domande. A un certo punto, di fronte a 300 persone, Kevin mi fa: "Mi spiace dovertelo rivelare, Yance, ma William lo sapeva che eri gay". Al che gli faccio: "Scusa?!" (ride). Kevin mi raccontò di come mio fratello avesse detto agli amici: "Senti, io porterò Yance al ballo di fine anno. Porterò Yance al ballo d'inverno. Lo farò; nessuno uscirà con mia sorella, chiaro?". Ma la cosa meravigliosa della comunità in cui son cresciuto, e della sua coerenza, è che quei ragazzi lo sapevano e io non ne avevo idea. E dopo che William aveva spiegato loro il mio orientamento sessuale, si son comportati in maniera protettiva nei confronti di mia sorella e miei, tanto quanto oggi accettano la mia identità di genere. Stiamo parlando di persone ultra-settantenni e appena oltre gli 80. E oggi che finalmente mi mostro in pubblico così come sono, loro sono in grado di comprendermi — avendomi conosciuto sin dal 1973.

Penso che, essendo stato figlio di genitori che parlavano di zii e zie che erano "in un certo modo", persone che facevano parte della loro famiglia e non ne venivano allontanate, ciò che è accaduto nella comunità nera sia stato un passaggio dall'accettazione olistica delle nostre famiglie e dei nostri familiari per ciò che sono, a un rifiuto ampiamente influenzato dal cristianesimo evangelico. Il cristianesimo evangelico è un tipo di cristianesimo molto diverso dalla tradizionale chiesa battista, guidata dalla teologia della liberazione. Parlo di quella tradizione battista del sud che aveva permesso a un uomo dichiaratamente gay quale Bayard Rustin d'esser l'architetto della Marcia di Washington. Perciò quella è una delle cose di cui son più orgoglioso, il fatto che il film vada a respingere quel comodo quanto stereotipato primato fobico e intollerante della comunità nera.

Puoi spiegarci il significato che riveste per te la nomination agli Oscar, tenendo presente che sei il primo regista transgender a ricevere questo onore? Suppongo che essere il primo in qualsiasi cosa porti con sé grandi pressioni, perciò adesso come ti senti? Credi che questo possa aprire la porta ad altri cineasti transgender che vogliano raccontare le proprie storie?

La mattina in cui le nomination son state annunciate sono successe due cose. La prima è che essendo stato nominato per un Oscar sono uscito di testa. È una roba enorme, e c'è chi lavora per tutta la vita senza vedersi nominato per un Oscar, e in un certo senso sentivo che si trattava di un'enorme convalida, da parte dei nostri pari, di tutto il lavoro che tante persone d'incredibile talento avevano fatto per rendere questa pellicola una realtà.

Il fatto d'esser il primo regista transgender nominato per un Oscar nello stesso anno in cui la prima attrice transgender è stata nominata per un Oscar; la prima direttrice della fotografia; Dee Rees è la prima afroamericana ad esser stata nominata per la [migliore] sceneggiatura; e ovviamente c'è Jordan Peele con tre nomination per "Get Out". Credo che ci sia chi non aspiri a rappresentare una categoria, e di certo non intendo dire che invece io voglia farlo, ma ritengo di poter uscire allo scoperto senza perdere il mio lavoro, la mia casa, i familiari e gli amici. Se grazie al fatto d'essere il primo regista transgender nominato potrò portare un po' di beata normalità fra gente che il non-binarismo del genere non riesce neanche a concepirlo, allora ne sono felice. Se sarò in grado d'aiutare una famiglia a riflettere per un istante, e a esitare prima di respingere il proprio figlio, allora ne sono felice. Se potrò aiutare la gente a ricordare come la comunità transgender sia oggetto di violenze più frequenti di qualunque altra comunità del paese, allora ne sono felice. Ma sono altrettanto felice del fatto che la mia identità transgender stia lì a rammentarci del fatto che dobbiamo concepire una definizione più ampia di diversità. Non amo parlare di diversità quanto d'inclusione, perché come abbiamo visto con "Black Panther", a tutti piace andare al cinema e vedere qualcosa in cui potersi identificare — qualcosa a cui potersi rapportare — e quei film fanno soldi. Perciò credo che questo particolare momento rappresenti quanto meno uno zeitgeist in cui la gente comincia a capire che la presenza di professionalità inclusive dietro a una telecamera non comporta pellicole d'inferiore qualità, quanto piuttosto film di qualità superiore e un pubblico più vasto.

"Strong Island" è su Netflix.

L'articolo è apparso originariamente su HuffPost USA ed è stato tradotto da Stefano Pitrelli

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