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Cultura

"Ho voluto dar voce alle assaggiatrici di Hitler, costrette a rischiare una morte da topi"

la feltrinelli
la feltrinelli 

Nell'autunno del 1943, l'allora ventiseienne Rosa Sauer riesce a fuggire alla guerra lasciando Berlino per Gross-Partsch, nella Prussia Orientale. Vive a casa dei suoi suoceri, ma il marito non c'è, perché impegnato a combattere sul fronte russo. Si dovrebbe riposare, viste le cinquanta ore di viaggio e i settecento chilometri che sente ancora addosso, ma non c'è tempo, perché due uomini in divisa grigioverde si presentano in quella nuova casa di campagna che non ha ancora avuto modo di scoprire, dicendole che il Führer ha bisogno di lei. Su consiglio del sindaco del paese, Rosa viene scelta per essere una delle dieci "assaggiatrici" di Hitler, una delle dieci donne che ogni mattina, a pranzo e poi a cena, deve provare i piatti che escono dalle cucine del cuoco Briciola per scongiurare ogni possibile tentativo di avvelenamento. Ognuna di loro – "zolle che galleggiano e collidono, che scorrono l'una accanto all'altra o si allontanano" - alle undici del mattino, è già affamata", ma quel buco nello stomaco non dipende né dall'aria di campagna, né dal viaggio fatto in pulmino, ma solo ed esclusivamente dalla paura che si fa più ogni volta più grande, soprattutto durante quel tempo "opaco e smisurato" della loro digestione, quando ormai i loro corpi hanno assorbito il cibo del Führer. Ogni volta, lui è salvo e loro – subito dopo - hanno di nuovo fame e così nei giorni successivi, dando così vita ad una roulette russa senza fine dove i sensi di colpa e il terrore hanno la meglio su tutto il resto. Mangiano per non far morire, ma rischiano però di morire a loro volta, "una morte in sordina, fori scena", "una morte da topi, non da eroi".

La sua storia è realmente accaduta ad una donna, Margot Wolk, vera assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendrof, una donna fragile di fronte alle violenza della storia e costantemente in trappola, che la scrittrice Rosella Postorino ha preso come spunto per scrivere il suo romanzo, "Le assaggiatrici", pubblicato in Italia da Feltrinelli e da settimane in vetta alle classifiche. Non è mai riuscita ad incontrarla di persona, perché deceduta poco prima del loro incontro, ma da quel bisogno di raccontarne la storia è venuto fuori un libro avvincente e davvero ben scritto, necessario per salvarci (o distrarci) in un Italia post elezioni più "Salvinizzata" che mai e con una maggioranza che non c'è più.

Nessuno, prima di lei, aveva mai raccontato di un'assaggiatrice perché – come spiega ad HuffPost a margine della presentazione a Milano alla seconda edizione di Tempo di Libri – Margot Wolk (e con lei Rosa Sauer) "è un personaggio completamente inedito, una marginale, una che la Storia ha tradito, irrompendo nella sua vita con forza, passandole sulla pelle, ma che nessun libro di Storia ricorderebbe". "Ho scelto di raccontare la sua storia perché racconta la guerra dal punto di vista delle donne, che restano a casa – aggiunge - ma che in questo caso fanno parte a loro volta di un piccolo esercito, un esercito senza armi se non il proprio corpo, e che come soldati sono costrette a sacrificare la propria esistenza per una causa più grande: il Terzo Reich".

le assaggiatrici
le assaggiatrici 

Come la definirebbe?

"La definirei una vittima e una colpevole insieme. Una cavia e una privilegiata. Una "salvata", per usare un termine di Primo Levi, su cui grava la colpa del superstite".

Una donna costretta a lavorare per Hitler, a provare cibo per lui per salvare la vita al più grande criminale nella storia del Novecento. La prima volta che ha sentito parlare di lui sarà stata sicuramente a scuola, o forse in casa: cosa ha pensato quando ha saputo cosa aveva fatto?

"È stato sicuramente a scuola: in quinta elementare, credo. Le domande che si fanno i bambini sono semplici ma spesso disarmanti: come è stato possibile? Perché gli altri glielo hanno lasciato fare? Ecco, è una domanda che dovremmo porci ancora oggi, da adulti. Quando gli ebrei scappavano prima dalla Germania e poi dalle altre nazioni in cui erano state promulgate le leggi razziali, c'erano Paesi che noi consideriamo democratici, come la Svizzera o gli Usa, che non li accoglievano, che li rifiutavano - come è accaduto per esempio ai profughi della nave St. Louis nel 1939 - con giustificazioni del tipo: "non si possono superare le quote di accoglienza", "non possiamo prenderli tutti", "veniamo prima noi", "entrano solo quelli che hanno un lavoro" e così via: sembrano espressioni estrapolate dalla nostra immediata attualità. Questo dovrebbe inquietarci e porci di fronte all'inerzia che mostriamo verso le stragi perpetrate nel nostro, di tempo".

Nella caserma in cui è costretta a lavorare la protagonista, quelle dieci donne rischiavano di morire tutti i giorni, ma – come scrive – "non più di chiunque sia vivo". È d'accordo?

"È chiaro che, dicendo così, Rosa, la mia protagonista, sta esprimendo un paradosso. Se vengo reclutata per accertarmi, sulla mia pelle, che il cibo che ingoio non sia avvelenato, il mio rischio di morire è più alto rispetto al rischio corso da chi non fa il mio stesso lavoro. Ma con questa frase Rosa tocca uno dei temi che attraversano il libro in profondità, e cioè il fatto che tutti gli esseri umani sono mortali, che il nostro corpo marcisce, che la vita è una cosa fragilissima, si può spezzare da un momento all'altro ("ha la morte come meta, perché gli uomini non dovrebbero approfittarne?", si domanda Rosa cercando di figurarsi ciò che avviene nella mente di un altro personaggio del romanzo: Ziegler, un tenente nazista), e tuttavia cerchiamo di difenderla con le unghie e con i denti, a ogni costo, fino a colludere con il male, pur di salvarci. L'istinto di sopravvivenza è umanissimo e antieroico, per Rosa è addirittura ingiustificabile, eppure, si sorprende lei, quasi si rammarica: "non ero mai stufa di vivere".

"Che cosa permette agli esseri umani di vivere sotto una dittatura"? Viene detto nel libro, ma giro a lei questa domanda, visti anche i risultati delle ultimi elezioni politiche italiane.

"Io sono una scrittrice di romanzi, una che inventa e narra storie, non posso e non devo dare risposte definitive, soprattutto a interrogativi così ampi e complessi, su cui si sono interrogati storici, sociologi, politologi e studiosi della psiche. Da scrittrice, mi pongo domande, anzi faccio sì che i miei personaggi se le pongano in merito alla storia che li riguarda. Rosa si chiede come lei abbia potuto vivere, come il popolo tedesco abbia potuto vivere sotto una dittatura, ma non arriva a una risposta, di fatto non arriva a nessuna risposta su niente, ed è anche questo a renderla un personaggio tragico. In un altro brano del libro, Rosa ribalta una frase di Hitler: "la massa è come le donne. Non vuole un difensore, ma un dominatore", dicendo invece che "sottomettersi è più facile che soggiogare. Non è la massa a essere come le donne, ma il contrario". La libertà è un'avventura rischiosa, che dà vertigine. La religione attecchisce su questa stessa vertigine, non a caso. E non a caso Hitler proponeva un'immagine mistica di sé, era l'uomo della Provvidenza. Sembra quasi che gli esseri umani abbiano bisogno di catene".

Il fascismo – dal cinema e nella letteratura, ma soprattutto nella vita reale (i recenti episodi da Ostia a Macerata lo dimostrano) - è più attuale che mai. Non sarebbe meglio arrivare al suo rifiuto collettivo con l'educazione e la cultura, invece che con divieti e scioglimenti, come insegna l'odierna scena politica?

"Certo che la scuola e la cultura sono gli strumenti fondamentali per formare cittadini coscienti, informati, critici, democratici, e dunque antifascisti. Se questi strumenti fossero bastati, però, il nostro Paese non assisterebbe alla recrudescenza fascista (razzista e violenta) che si manifesta ormai senza riserve. Pare che siano in più di 100.000 i giovani con meno di trent'anni che vivono oggi nel culto del fascismo. Dal momento che la nostra Costituzione considera il fascismo anticostituzionale, esiste la possibilità di sciogliere i gruppi neofascisti. Io sono a favore dello scioglimento, ma il rischio è di farli diventare, agli occhi dell'opinione pubblica, dei martiri, dei perseguitati: ecco forse perché finora non si è intervenuti in questo senso. Come sempre, la realtà è più complicata delle nostre facili soluzioni teoriche".

Ci sarà una trasposizione cinematografica di questo romanzo?

"Per il momento no".

Da scrittrice ed editor di successo, lei è un esempio lampante che, nonostante tutto, qualcosa sta cambiando nel riconoscimento dei diritti di voi donne e nella tutela contro le violenze, anche se queste ultime continuano inarrestabili e tante altre mete sono ancora da raggiungere. Perché il "maschio" ce l'ha con voi? Cosa bisognerebbe fare?

"In che modo il fatto che io sia scrittrice e editor dimostrerebbe che le cose sono cambiate nella tutela contro le violenze sulle donne o nel riconoscimento dei loro diritti? E chi crede che il maschio in quanto rappresentante di un genere ce l'abbia con la femmina in quanto rappresentante di un altro genere? Il discorso è molto più articolato di così, lo sappiamo. Le statistiche parlano chiaro: sul lavoro, l'accesso ai ruoli apicali è maschile, le differenze retributive, a parità di ruolo e responsabilità, sono ancora alte, l'assenza di un welfare adeguato allontana le donne dal mondo professionale, costrette come sono a prendersi cura di figli e anziani, vanificando i risultati ottenuti nel percorso formativo, migliori se paragonati a quelli degli uomini.

Per quanto riguarda le violenze, di diverso grado e livello, gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che la situazione non è affatto pacifica. Più ci si trova in una condizione di fragilità - economica e sociale - e più è difficile, persino "pericoloso", far sentire la propria voce.

Culturalmente, tra le cose che bisognerebbe fare c'è, forse, un passo indietro da parte dei maschi, cioè: ascolto te che sei donna, ascolto la tua testimonianza, e mi fido, ti do credito, perché io invece non sono donna e non posso quindi sapere, non sperimento sulla mia pelle le cose che racconti, ed è per questo che non mi accorgo di quanto siano sottili e solo apparentemente senza conseguenze le discriminazioni, le difficoltà, i ricatti che tu vivi ogni giorno. Siccome detesto le ingiustizie, detesto anche questa, di ingiustizia, che è sociale e quindi riguarda chiunque, maschi e femmine. Rispetto invece alle donne, forse servirebbe una più diffusa consapevolezza dei condizionamenti che un presunto, invisibile sguardo maschile esercita sui nostri comportamenti. Nel 2000, in Erasmus a Vienna, seguii in facoltà ben tre corsi di cinema, e tutti e tre analizzavano esattamente questo: lo sguardo maschile sul mondo, lo sguardo maschile sulle donne, e il modo in cui tendiamo a leggerlo come oggettivo, non sessualizzato. Qualche tempo fa un'inchiesta su un magazine raccontava come le adolescenti di oggi si scagliassero contro il femminismo, considerandolo una forma di ostilità verso i maschi, una via per farsi potenzialmente rifiutare da loro, e interpretassero le gelosie, le aggressioni o il controllo dei loro ragazzi come una specie di prova d'amore. L'ho trovato allarmante. Ma questo fraintendimento implica un esame di coscienza da parte del femminismo, del modo in cui i suoi contenuti sono stati veicolati, specialmente alle nuove generazioni.

L'educazione sentimentale, "relazionale", prima ancora che sessuale, a scuola è indispensabile. La determinazione a scardinare ogni stereotipo, anche attraverso il linguaggio, è necessaria. Il cosiddetto patriarcato - termine ormai quasi stigmatizzato come desueto, impronunciabile - è nocivo anche per la libertà degli uomini, non solo delle donne".

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