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Effetto sondaggi: così i partiti adottano la tattica "last minute"

Prodi testimonial di Insieme per aggiungere un 1% al Pd

Effetto sondaggi: così i partiti  adottano la tattica "last minute"

Sabato Romano Prodi annuncerà di votare per Insieme, la lista di sinistra alleata con il Pd, che ha l'Ulivo nel simbolo e dentro socialisti, verdi e una lista civica. Il motivo è semplice: la lista in questione per ora nei sondaggi è sotto l'1%, per cui c'è il rischio che i suoi voti vadano persi. Il nome di Prodi, nelle intenzioni di Matteo Renzi, è l'iniezione ricostituente per evitare questa dispersione, o almeno è il tentativo di prendere quello 0,3% ancora necessario per superare la fatidica soglia. A poco più di due settimane dalle elezioni, ormai tattiche elettorali e possibili obiettivi vengono tutti ricalibrati dai partiti sui sondaggi. È un lavoro da laboratorio a cui gli stati maggiori si dedicano guardando non solo alle percentuali di cui i partiti sono accreditati a livello nazionale, ma addirittura studiando la situazione dei vari collegi uninominali. E le strategie future vengono lavorate e rielaborate costantemente, tenendo conto di questi trend elettorali in provetta.

Nel centrodestra c'è la sensazione che si possa raggiungere il successo. E molti sono convinti che anche se il traguardo non è ancora sicuro, dovrebbe mancare poco. Renato Brunetta parla di 325 deputati, mentre Paolo Romani immagina che al momento la coalizione possa contare già su 158 senatori. La maggior parte dei sondaggi non danno la proiezione di una maggioranza già definita nel prossimo Parlamento, ma, in ogni caso, il training autogeno è una delle tecniche elettorali fondamentali. Semmai il vero problema è un altro: una serie di vicende, come la tragedia di Macerata, hanno rilanciato la Lega, per cui il peso delle diverse anime dentro la coalizione è tutto da verificare. «Il nuovo rebus - osserva Lorenzo Cesa, uno dei leader della quarta gamba centrista - è capire quale percentuale farà la Lega. È indispensabile che dentro la coalizione la maggioranza dei parlamentari siano attribuiti a Forza Italia e a noi. Altrimenti le cose si potrebbero complicare. Un equilibro di questo tipo è indispensabile per imporre agli alleati le uniche due candidature vere che abbiamo a disposizione per Palazzo Chigi. Antonio Tajani è la prima. Andrebbe benissimo. Lui è restio. In Europa occupa un posto di prestigio, una delle poche caselle italiane e potrebbe addirittura ambire a diventare il numero uno della Commissione Ue. Per cui lasciar Strasburgo, quando si avvicina anche l'addio di Draghi, può creare problemi. Ma se Berlusconi gli chiederà di scendere in campo mi ha detto che non si tirerà indietro. L'altro è Gianni Letta, anche lui sarebbe adatto, ma a lui non piace per indole assumere ruoli di primo piano».

Il trend positivo spinge quasi naturalmente il centrodestra ad immaginare premiership, ad ipotizzare il nome che Berlusconi potrebbe tirare fuori dal cilindro due giorni prima del voto. Solo che «l'incognita» su un possibile successo della Lega fuori misura, e sulle sue conseguenze, è ancora tutta da valutare. Senza contare che continuano ad esserci ancora un numero notevole di collegi che ballano, che sono difficilmente attribuibili, nelle previsioni. Su questi temi si arrovellano, appunto, gli altri, a cominciare dal Pd. «Noi - è il dilemma che Renzi pone ai suoi quotidianamente - continuiamo a scendere da sei mesi». Sempre i soliti maledetti, o benedetti, a seconda dei punti di vista, sondaggi. Su di loro, su quelle percentuali che mutano di settimana in settimana, il segretario calibra il confine tra vittoria e sconfitta. Se fino a dieci giorni fa l'obiettivo minimo da raggiungere era il 25%, ora siamo al 24%. «Se riesco a stare al 24% è fatta», sono i calcoli di Renzi. E per «fatta» il segretario, immagina un premier del Pd che guidi una grande coalizione. Non pensa, invece, che il centrodestra abbia la possibilità di vincere da solo. O almeno se lo augura. Tant'è che un risultato sotto il 24% si porta dietro altre valutazioni, ma non quella. «Se stiamo sotto quella soglia, avremo comunque gli Esteri e il resto. E se la Bonino farà un buon risultato porteremo anche lei al governo. Io comunque debbo recuperare almeno 1-2 punti. Se li recupero e Berlusconi non perde...».

Appunto, se venisse fuori un risultato del genere la grande coalizione non diventerebbe una scelta, ma una necessità nella mente del segretario del Pd. È l'obiettivo considerato più abbordabile tra i renziani. E che, comunque, resta arduo. «C'è il rischio - è l'analisi di Matteo Richetti - che la Lega abbia un successo sopra le attese. Il problema per noi non è quello di Liberi e Uguali, che con Grasso leader si sono tarpati leali. In Emilia, infatti, andremo alla grande. No, è il fatto che in regioni come le Marche i vecchi comunisti, che hanno una cultura intollerante, dicono che voteranno Lega. Se ci aggiungiamo l'aria che tira nel Sud, dove, in alcune regioni tipo la Sicilia e la Campania, rischiamo di non fare percentuali a due cifre, ci si rende conto che la situazione è, a dir poco, complessa. C'è da sperare che alla fine per paura dei 5stelle e della Lega, l'elettorato moderato guardi a noi».

Chi l'avrebbe detto? Un ritorno al futuro della «formula» che fece grande la democrazia cristiana. Questa è l'ultima speranza. L'ultimissima, invece, è più proiettata sul dopodomani, sul medio periodo, nella convinzione che un paese come l'Italia non lo governi con un voto in più. «Io se fossi nel centrodestra - azzarda il responsabile giustizia del Pd, David Ermini - non so se mi augurerei di vincere. Certo in caso di vittoria non potranno non provare a governare, ma con i casini che hanno dentro, con l'opposizione che si ritroveranno contro, tempo un anno e mezzo e si finisce alle larghe intese. In un sistema tripolare, il polo che vince, anche se ha la maggioranza in Parlamento, il giorno dopo è minoranza nel Paese, visto che gli altri due poli gliela faranno pagare. È quasi un automatismo». Eh sì, ognuno ha la sua speranza e ognuno ha il suo errore da recriminare. In fondo siamo una nazione particolare, se si pensa che per la prima vota nella storia di questo pianeta (non ci sono esempi del genere a livello globale), un movimento, cioè i 5stelle, manderà in Parlamento una decina tra deputati e senatori che ha già espulso ancor prima di vederli eleggere. Secondo arrivato, sempre tra i record che questo voto farà registrare sul guinness dei primati, è quello di un partito, quello di Liberi e Uguali, che ha già scaricato il suo candidato premier due settimana prima delle elezioni. «Renzi lo aspetto il 5 marzo - scuote la testa Ugo Sposetti, una vita trascorsa nel Pci, nel Pds, nei Ds, nel Pd - ma anche quegli altri hanno fatto dei capolavori: ma come si fa a scegliere un ex-procuratore come Grasso per guidare quel che resta della sinistra italiana?!». Appunto, più si va avanti in questa campagna elettorale e più si ha l'impressione che vinceranno queste elezioni non i più bravi, ma quelli che hanno sbagliato di meno. «È proprio così!», ammette l'ex segretario della Cisl, Sergio D'Antoni, che tra sindacato e politica ne ha viste tante nel Palazzo. «Io ora mi occupo di Sport, ma sono esterrefatto. È stata la fiera degli errori o degli orrori, un po' per tutti. Il Pd, addirittura, si è inventato una legge elettorale per favorire gli altri. Sono cose che non si possono spiegare con la ragione, ma con le patologie della mente.

Non resta che chiamare il 118».

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