Politica

Punito chi incita alla discriminazione

Il testo voluto nel '93 per rafforzare le norme della "legge Scelba"

Punito chi incita alla discriminazione

«Un'arma ideologica» usata da globalisti e loro sodali («giornalisti e commentatori mainstream e certi partiti») per «puntare il dito contro il popolo italiano» ed «accusarlo falsamente di ogni nefandezza». Questa, all'indomani del granchio sulla presunta «aggressione razzista» ai danni di Daisy Osakue, in estrema sintesi, è secondo il ministro della Famiglia e della Disabilità Lorenzo Fontana, la cosiddetta legge Mancino. Le parole del leghista e l'intenzione di abrogare la norma, sebbene la mossa non sia contemplata dal «contratto di governo», sono all'ordine del giorno. Quindi è il caso di saperne qualcosa di più in proposito.

Emanata con decreto legge il 26 aprile 1993, la conoscono tutti come «legge Mancino» perché la sua paternità si deve all'allora ministro dell'Interno, il democristiano Nicola Mancino. Anche se il vero artefice, dimenticato, fu il deputato Enrico Modigliani del Pri. La norma mette all'indice e sanziona gesti, azioni e slogan riconducibili all'ideologia nazifascista che incitano alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali e punisce anche l'utilizzo della relativa simbologia: dalla svastica al fascio littorio, passando per i saluti romani tanto in voga nella romagnola Predappio. Insomma, la casistica è piuttosto variegata. Chi l'ha immaginata lo ha fatto in continuità con la legge Scelba che, sin dal 1952, bandisce la «riorganizzazione del disciolto partito fascista» e punisce associazioni, movimenti o gruppi con «finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza». Le pene previste dalla legge Mancino sono severe. Si va dalla reclusione fino a un anno e sei mesi o dalla multa fino a 6.000 euro per chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico» sino alla detenzione da sei mesi a quattro anni per chi «incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

Inutile dire che movimenti e realtà più o meno organizzate che guardano nello specchietto retrovisore della storia considerano tanto la Scelba quanto la Mancino come vere e proprie bestie nere. Non a caso, negli 8 punti su cui nasce Forza Nuova, il settimo è proprio dedicato alla «abrogazione delle leggi liberticide Mancino e Scelba» definite «espressione normativa di una cultura dominante che tirannicamente impedisce pensiero ed azione, volti alla difesa della Nostra storia nonché del patrimonio religioso e culturale del nostro Paese». Anche la Lega, quando ancora era Nord e ben lungi dall'essere in odore di simpatie neofasciste, organizzò un referendum per abrogare la Mancino. Correva l'anno 2014 e il Carroccio lanciò la sottoscrizione per smantellarla dal nostro ordinamento giuridico assieme a quella Merlin e alla Fornero. Non una battaglia ideologica, ma una battaglia di «libertà». In effetti il tema più dibattuto riguarda la presunta incostituzionalità della legge che, secondo i critici, confliggerebbe con l'articolo 21 della Carta che sancisce la libertà di manifestare il proprio pensiero in «ogni forma».

Ma se da un lato c'è chi ne farebbe volentieri a meno, dall'altro qualcuno ha persino cercato di estenderla ai reati di discriminazione in base all'orientamento sessuale e all'identità di genere.

Il tentativo naufragato nel 2013 porta la firma di Ivan Scalfarotto (Pd), Silvia Chimienti (M5s), Irene Tinagli (Scelta civica) e Alessandro Zan (Sel).

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