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Renzi già pensa al pareggio E dice no a governi tecnici

Il «pizzino» al Colle: in caso di «impasse» dopo il voto il Pd non appoggerà mai esecutivi di salute pubblica

Renzi già pensa al pareggio E dice no a governi tecnici

Ormai Ignazio Visco è stato confermato alla guida di Bankitalia, e Matteo Renzi ha dichiarato chiusa lo scontro e assicurato lealtà e rispetto per le scelte del governo Gentiloni.

Eppure, sulla questione bancaria il leader del Pd continua a battere: anche ieri, nelle anticipazioni del libro di Bruno Vespa in uscita, la rievoca per fare un parallelo col torbido caso Consip: «È sorprendente - dice - che si possa definire eversiva la mozione del Partito democratico che chiedeva discontinuità nella guida della Banca d'Italia, e non l'inchiesta in cui si dice, falsando le prove, che bisogna arrivare a Tiziano Renzi e arrestarlo». Aggiunge: «Non ci piegheremo mai al dogma dell'infallibilità» di Bankitalia. E sfida: «Il Pd non è partito che si schiera a prescindere a difesa del sistema e non è soprattutto il partito dei banchieri». Perché insistere? Certo non per tenere il punto su Visco, ormai in sella. Né solo per ragioni di campagna elettorale, per deviare dal Pd il polverone polemico su Banca Etruria e presentarsi come il partito che si batte contro i poteri forti.

Nella campagna renziana su Visco, come nelle parole forti usate dall'ex premier anche domenica a Napoli sul primato della politica contro la «tecnocrazia senz'anima» c'è - tra le righe ma neanche troppo - un messaggio tutto politico e a futura memoria che ha una lunga lista di destinatari, con il Quirinale in testa. Un messaggio che, in estrema sintesi, suona così: dopo le elezioni, in caso di impasse, il Pd di Renzi non è disponibile a dare i propri voti in Parlamento a sostegno di governi di salute pubblica guidati da tecnici. Neppure se quel tecnico si chiamasse, metti caso, Mario Draghi. La variabile «governo tecnico» o del Presidente è un non detto del dibattito politico italiano, un'eventualità molto discussa nei corridoi del Palazzo ma di cui nessuno parla in pubblico. L'unico ad averla ufficialmente teorizzata, anzi auspicata, è stato Massimo D'Alema: «Se (dopo le elezioni, ndr) non ci fosse alcuna maggioranza, le forze politiche che vorranno salvare la democrazia dovranno sostenere un governo al di sopra delle parti», ha spiegato a settembre, «un governo del presidente, che possa avere largo consenso al di sopra degli schieramenti. L'ultima spiaggia per il sistema democratico». Niente nomi, ma la mente di tutti è corsa ovviamente al Supermario nazionale. Chiaro l'intento di D'Alema: mettere il cappello su questa ipotesi, avvertendo che il suo partito, Mdp, è pronto a dare il proprio appoggio ad un'operazione che, nella strategia dalemiana, segnerebbe la definitiva messa ai margini di quell'odiato dilettante di Renzi, e il ritorno in campo dei professionisti come lui. Certo la strategia, per realizzarsi, ha bisogno di alcune premesse tutte da verificare: che dalle elezioni non emerga alcuna maggioranza, che Mdp riesca ad entrare in Parlamento e che i molteplici leaderini del partito scissionista gli diano retta. Ma D'Alema ha fede.

E Renzi sa bene che non è il solo, e che c'è chi guarda di buon'occhio l'ipotesi non solo nell'establishment, in quelle che chiama «le alte burocrazie», nei grandi giornali ma anche in Forza Italia, tra i centristi e nel suo stesso partito. Da Giorgio Napolitano a Dario Franceschini, da Andrea Orlando a Anna Finocchiaro: in caso di emergenza, nessuno di loro si tirerebbe indietro, con ogni probabilità. E se davvero a marzo finisse così e non ci fossero i numeri per un governo politico, è chiaro che partirebbe un pressing anche internazionale cui diventerebbe difficile resistere.

Meglio allora mettere le mani avanti in anticipo e avviare la campagna elettorale con lo slogan usato a Napoli: «Contro il populismo serve la politica, non la tecnocrazia».

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