Politica

Il ritorno mascherato della Prima Repubblica

Sempre più in voga simboli, liturgie e personaggi dell'epoca in cui dominavano i democristiani

Il ritorno mascherato della Prima Repubblica

Per Denis Verdini è un ritorno alle origini, visto che la sua casa in Toscana è un museo storico di cimeli mazziniani. E, grazie all'ex braccio destro di Silvio Berlusconi, uno dei simboli più noti della Prima Repubblica, l'edera repubblicana, a meno di qualche vizio legale, tornerà sulla scheda elettorale delle prossime elezioni politiche. Questa volta in coalizione con il Pd. «Manca solo il sì di Renzi - osserva Lucio Barani, socialista e capo dei senatori verdiniani in Senato -: in fondo noi siamo sempre stati lì, visto che nella dizione completa del nostro gruppo al Senato c'è anche il nome del Partito Repubblicano».

La voglia di Prima Repubblica la vedi anche nell'impegno dei figli della Terza, di questi singolari neo repubblicani, di arrogarsi il diritto di essere gli eredi di Ugo La Malfa. Nessuna meraviglia. L'aria che tira è quella, se un personaggio come Silvio Berlusconi, che in fatto di marketing è un genio, ha voluto a tutti i costi che la quarta gamba del centrodestra si riunisse sotto il simbolo, antico e glorioso, dello scudocrociato. «La croce nello scudo - è convinto il Cav - da sola vale un punto, un punto e mezzo». Alla fine, però, gli eredi di oggi di Alcide De Gasperi, oltre al simbolo, hanno ereditato anche vizi e virtù dei vecchi democristianoni. Ne sa qualcosa Paolo Naccarato, dc per nascita e per convinzione, che ha visto far fuori l'idea della lista di Sgarbi&Tremonti con le liturgie di un tempo. «Eravamo - racconta - riuniti nella nuova sede di Noi con l'Italia, cioè la quarta gamba del centrodestra, a cinquanta metri dalla mitica sede Dc di Piazza del Gesù: io per Sgarbi, e gli altri, tutti personaggi di origine dc come Cesa, Fitto, Saverio Romano, Lupi, De Poli. L'unico non democristiano era Costa. Ore e ore di discussione con zero risultati. Fino a quando non siamo piombati nel silenzio più assoluto. A quel punto ho rotto gli indugi. Gli ho detto: Nei caminetti dei capi democristiani, si usciva dal silenzio o con un Carlo Donat Cattin che rompeva tutto; o con Arnaldo Forlani e Antonio Gava che chiedevano un approfondimento. Ma qui non c'è più nulla da approfondire. A quel punto Cesa ha fatto il Donat Cattin, e ha messo fine all'ipotetica alleanza».

Nostalgia di ricordi, di comportamenti, di simboli. La politica sembra tornare a un quarto di secolo fa. C'è chi, come il ministro Dario Franceschini non ne fa mistero. Anzi. «Ritorno alla prima Repubblica? Per me - risponde - non è un fatto negativo». E a ben guardare l'unica eventualità che potrebbe impedire il ritorno indietro è la vittoria del centrodestra alle elezioni politiche: grillini e Pd, infatti, sono troppo indietro nei sondaggi per poter aspirare all'obiettivo di governare da soli. Per il centrodestra, invece, è difficile, ma non impossibile: il padre di tutti i sondaggi, quello che dovrebbe determinare le quote nelle liste elettorali dei diversi partiti della coalizione, assegna a Berlusconi e soci 280 seggi. Di fatto, ne mancano 36 all'appello, per raggiungere la fatidica soglia della maggioranza assoluta alla Camera. Se ciò non avverrà, se il Cav non riuscirà nell'impresa, premier e governo saranno decisi dalle trattative tra i partiti in Parlamento nel dopo elezioni. Esattamente come in quel passato ormai lontano. E assume quasi un valore simbolico la circostanza che l'unico che possa impedire l'avvento di una nuova Prima Repubblica sia proprio Berlusconi, cioè il personaggio che più di tutti ha incarnato la Seconda.

Sono i paradossi della Storia. Ma la Storia, appunto, è ricca di ritorni al futuro come questo, che appaiono fatali, inevitabili. Non per nulla già tutti si stanno adeguando alle nuove tattiche, ai nuovi schemi di gioco. Pardon ai vecchi. Ad esempio, il «caso Maroni» non sarebbe spiegabile con le logiche della Seconda Repubblica. E anche la «vulgata» che l'attuale governatore della Lombardia abbia deciso di rinunciare ad una nuova candidatura per paura di incorrere nelle norme della Severino a causa di un processo in cui è imputato, è superficiale. Se, invece, applichiamo lo stile che andava di moda nell'ultima coda del secondo millennio, l'inspiegabile diventa spiegabile. A cominciare dalla frase con cui Maroni ha accompagnato il suo addio: «Sono a disposizione». Giustappunto l'espressione con cui i politici di una volta annunciavano di «essere in campo». Per cosa? È semplice, basta leggere i gesti di oggi alla luce di ieri: se il centrodestra non avrà i numeri per governare da solo, ce ci sarà bisogno delle larghe intese, chi meglio di Maroni - già vicepremier, ministro dell'Interno e governatore - potrà rappresentare la Lega in un simile governo? Tanto più che quel nome potrebbe azzerare l'idiosincrasia che divide il Pd dalla Lega per una simile prospettiva. «Maroni è tutt'altra cosa da Salvini - ammette lo stesso Renzi nella rubrica di Keyser Söze su Panorama- : è ovvio!». Come in quegli anni, infatti, è tornata anche la consuetudine di giocare nel campo avverso. Pensate a Grasso, Bersani, D'Alema: hanno detto di sì all'alleanza con il Pd nelle elezioni per il Lazio e non a quelle per la Lombardia. Motivo? Zingaretti ha chance per vincere, Gori molte meno. «Fanno il loro gioco - prevede Renzi svelando i piani dell'avversario -: così il giorno dopo il voto potranno dire: con noi il Pd vince, con Renzi perde. Tutto scontato».

Se il segretario del Pd la prende con filosofia, Giuseppe Vacca, un personaggio tornato dal passato, già direttore dell'istituto Gramsci caro a Massimo D'Alema, che ora Renzi ha in mente di riportare in Parlamento, ha un'interpretazione più bellicosa. «I miei vecchi compagni del Pci ? Chi li capisce più!», risponde: «D'Alema è rimasto D'Alema. Con i suoi rancori e le sue contraddizioni. Ma almeno lui un'idea in testa ce l'ha: già parla di legislatura Costituente. È un pezzo di storia della Prima e della Seconda Repubblica che avrebbe tutto il diritto di stare in Parlamento. Bersani, invece, è fuori di testa. Quando era segretario del Pd fece fuori D'Alema (non fu Renzi ma lui a ridimensionarlo). Poi, ebbe la splendida idea di sostenere da solo il governo Monti quando il Cav lo aveva mollato. Risultato: i grillini passarono in un anno dall'8 al 25%. E ora torna a giocare con loro. Pierluigi è uno che sarebbe dovuto andare in pensione da parecchio tempo!».

Le Repubbliche vanno e tornano. Come pure le persone. Ad un Vacca che torna, corrisponde un Massimo Mucchetti che molla: «Tornare in Parlamento? Neppure morto. Ormai girano solo politicanti. E ormai non conti più nulla qua dentro: uno che sta alla cassa depositi e prestiti, vale più del presidente di una commissione parlamentare. Tanto più che se lo vuoi fare davvero, come ha tentato il sottoscritto, ti prendono per matto. Renzi ha recitato il de profundis anche sul Parlamento».

Ma c'è anche chi vorrebbe restare. Giulio Tremonti, che dicono sia oggetto di una fatw del Cavaliere per la crisi del 2011, conta di tornare grazie ad un collegio uninominale che gli avrebbero garantito la Lega e la Coldiretti.

Guarda caso un'altra istituzione potentissima nella Prima Repubblica.

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