Egeo Mantovani, l'ultimo partigiano: "La nostra fu una guerra di Liberazione"

I ricordi del 96enne, già reduce della campagna in Africa

Egeo Mantovani, classe 1921

Egeo Mantovani, classe 1921

Monza, 12 novembre 2017 - «Sbaglia chi parla di guerra civile: fu guerra di liberazione. Con tedeschi che ammazzavano italiani. Lo sarebbe stata – una guerra civile - se il 25 luglio 1943, quando cadde Mussolini, i Fascisti avessero impugnato le armi contro il Re. E invece no: io ero sergente dell’Esercito, ricordo bene quei giorni, e il Fascismo è caduto perché si è disciolto dando tutto in mano a “mezzasega” o “sciaboletta” Vittorio Emanuele III».

“Mezzasega”? «Sì, lo chiamavano così perché avevano abbassato l’altezza minima per entrare nell’Esercito a un metro e 55 solo perché era la sua statura. E poi è fuggito come un coniglio lasciandoci in braghe di tela dopo l’Armistizio!».

Gli salta ancora la mosca al naso, quando sente certi discorsi, nonostante abbia ormai compiuto 96 primavere e gli acciacchi dell’età si facciano sentire. Eppure lui, Egeo Mantovani, impugna deciso il bastone, sale la ripida scala che porta alla sede dell’Anpi (Associazione nazione partigiani d'Italia), di cui è presidente onorario, e comincia a snocciolare i racconti di una vita per meriterebbe un’enciclopedia per essere riassunta, compresi gli anni dopo la guerra da operaio alla Magneti Marelli, da sindacalista, da attivista del partito comunista, lui che era figli di genitori comunisti (il papà), socialisti (la mamma), fratello di un carabiniere che rifiutò di entrare nella Repubblica sociale italiana dopo l'Armistizio, una sorella staffetta partigiana.  Per provare a raccontare Egeo Mantovani (Igeo all’anagrafe, errore del padre poco avvezzo alla mitologia greca), bisogna allora forse partire dalla miseria. E dalla fame.

«Quella vera, che c’era anche prima della guerra».  Ad esempio a Limidi, frazione di Soliera, vicino a Carpi, dove Egeo nasce il 12 luglio 1921. Papà è un umile bracciante («ma sapeva leggere e scrivere») costretto a lunghe trasferte in giro per l’Italia per inseguire il lavoro. E allora mamma decide un giorno di suggerire a Egeo, che già lavora dall’età di 12 anni, di iscriversi a un corso per motoristi dell’Esercito. Non sa che la vita di suo figlio ne sarà stravolta. «Ho sempre odiato la guerra, mio padre aveva fatto quella del '15-'18 e ce l’aveva inculcato che ammazzarsi in guerra era una porcheria, sono sempre stato un pacifista. Però...».

Però la prospettiva di imparare un mestiere migliore, sfangandosi allo stesso tempo il servizio militare, ingolosisce Egeo. Che diventa meccanico provetto, prende la patente e si ritrova a fare la scuola-guida alle reclute. In più, con una motocicletta Guzzi sotto il sedere e le stellette da caporale, ha già fatto un salto sociale inimmaginabile e diventa «l’idolo delle ragazze» sorride di gusto. C’è però lo spettro della guerra alle porte e Mantovani, aggregato come specialista alla Compagnia del Genio, Divisione corazzata Ariete, si ritrova costretto a imbarcarsi – è il novembre 1940 – per l’Africa.​ Libia. Tripoli. Da un lato Rommel la Volpe del Deserto, dall’altro i nemici britannici.

«Gli Arabi ci odiavano, e come dargli torto? Eravamo gli invasori... L’esercito italiano, poi, era da barzelletta. Eravamo dei barboni, degli straccioni, con un equipaggiamento del tutto inadeguato». Ci si deve arrangiare. «Ricordo quando prendemmo dei tubi e li dipingemmo di nero per farli sembrare cannoni, gli aeroplani da ricognizione della Raf ci cascarono». Misurata, Tobruk, Golfo della Sirte. Alla fine El Alamein. Una storia di attacchi e ritirate precipitose.

Di caldo e di sete. «La sete ti fa gonfiare la lingua e finisce che soffochi. Ho visto tanti miei commilitoni morire così. Ho visto soldati che bevevano l’acqua dai radiatori e si bruciavano mezzo stomaco pur di sopravvivere. I nostri carri armati furono presto distrutti, io ero specialista nell’andare a recuperare i mezzi abbandonati nel deserto, spesso dagli stessi nemici, perché la sabbia li rovinava, il deserto era impraticabile per i mezzi corazzati...».

A El Alamein la svolta. «Ci fermammo perché era pieno di campi minati, tanti genieri saltavano in aria... Il generale un giorno si avvide che una nostra colonna di Bersaglieri aveva sbagliato direzione e aveva imboccato una strada che portava dritto in bocca agli Inglesi. Mi offrì una licenzia premio di un mese per andarli ad avvisare e io non me lo feci dire due volte».

Un’impresa incosciente ed epica. «Inforcai la mia Guzzi 500 Alce: la sabbia però era troppo alta e l’unica via era passare da un campo minato... con in testa la licenza premio presi la rincorsa e ci saltai dentro. Il generale col cannocchiale scrutava quello che facevo aspettando che saltassi in aria da un momento all’altro e invece riuscii a scamparla e a mettere in salvo i miei commilitoni. Uno Spitfire della Raf intanto puntava su di me, io fuggii con la mia moto e riuscii a lanciarmi nella buca scavata da una granata poco prima che partissero le sue sventagliate. Una volta in salvo, andai a riscuotere la mia licenza».

La situazione però in Africa sta precipitando e gli ufficiali tentano di convincere Egeo a restare barattando la sua licenza premio con una Croce tedesca al valor militare. «Ma io non ci pensai proprio e corsi a Tripoli – 2mila chilometri di litoranea fermandomi solo per i rifornimenti - a imbarcarmi: avevo recuperato una Ford a 8 cilindri che andava come il vento». A Tripoli però Egeo trova una sorpresa: «Le licenze erano state sospese. Litigai con un ufficiale e pur di convincerlo a lasciarmi salire su un aereo gli regalai la mia macchina». In Italia, Egeo Mantovani vive mille peripezie, a tratti come disertore per evitare di essere rispedito in Africa, a tratti nel pieno del suo grado di sergente in una situazione sempre più confusa per un’Italia ormai destinata a perdere la guerra.

Cade il Fascismo, Egeo fa ormai aperta propaganda per la pace e l’8 Settembre arriva l’Armistizio. «La gente iniziò a festeggiare, ma io avvertivo di stare attenti. Non avevamo ordini, si era allo sbando. Alle 2 del mattino mi ritrovai un soldato tedesco che mi puntava in faccia il raggio di una torcia e una mitraglietta». Invece della divisa, Egeo infila una tuta da meccanico e se la batte. «Non sono stato fatto prigioniero dagli Inglesi - mi dissi - non voglio esserlo ora dei Tedeschi. Saltai in un canale e fuggii convincendo due sentinelle che trovai sulla mia strada a seguirmi... una l’ho reincontrata per caso anni dopo e mi ha fatto una festa enorme, perché convincendolo a seguirmi gli avevo salvato la vita».

Sono anni difficili, fughe continue per sfuggire ai Tedeschi e una decisione in testa: diventare partigiano. «Riuscii a entrare in contatto con un ingegnere antifascista, che mi mandò a rifugiarmi in un capanno in montagna sull’Appennino Tosco-emiliano, dove mi trincerai con altri 2 militari e diedi vita a una cellula partigiana. Un contadino ci diede un fucile da caccia, si mangiavano erba e germogli di vite...». In montagna conosce un bambino, si chiama Giorgio e quando scende in paese viene incaricato di osservare i movimenti dei Tedeschi. «Come nome di battaglia da allora mi chiamai proprio “Giorgio”, il mio sarebbe stato troppo riconoscibile». Sono anni paurosi, terribili, di rappresaglie («ho visto ragazzi uccisi solo perché avevano un nostro volantino».

Egeo no, «io non ho mai ucciso nessuno, io mi occupavo soprattutto di azioni di propaganda, riuscii anche a intrufolarmi nella Guardia annonaria... Mi ritrovai a sparare solo nei giorni dell’insurrezione, nell’aprile del 1945, quando espugnai la postazione di una mitragliatrice tedesca che aveva ucciso 4 dei nostri». Sono passati più di 70 anni dalla liberazione. Non è ancora tempo di pacificazione? «Quella ci fu subito, con l’amnistia. E dall’oggi al domani gli Italiani, sempre pronti a saltare sul carro del vincitore, si misero un fazzoletto rosso al collo e si trasformarono da fascisti in antifascisti...». Alcuni partigiani furono autori di violenze orribili. «Le violenze furono sbagliate, dalle mie parti a Carpi ne uccisero tanti, vidi donne rapate a zero... non era giusto, tanti di noi tentarono di evitarlo, si diceva che non bisognava comportarsi come loro». I morti sono tutti uguali? «No, non sono tutti uguali. C’era chi combatteva per la libertà e chi per la dittatura. È una questione di principio».