"LUCRAVA SULLA DISPERAZIONE"
Osman Matammud, scrivono nelle motivazioni della sentenza i giudici della Corte d’Assise di Milano, ha agito «per fare più male possibile» alle decine di suoi prigionieri del campo libico. Un luogo spaventoso, hanno raccontato alcune vittime testimoni nel processo. In un grande hangar venivano tenute recluse circa 500 persone, sorvegliate a vista da uomini libici armati di fucile: i profughi «dormivano tutti insieme, così ammassati che non c’era nemmeno lo spazio per muoversi, l’hangar non era aerato, le condizioni igieniche erano pessime, c’erano pidocchi ovunque e molti soffrivano di malattie della pelle». I migranti erano costretti a stare chiusi nel capannone notte e giorno, senza nemmeno poter parlare tra loro. «Potevano uscire solo quando lo decideva Ismail» e in quel caso il loro destino era terribile. Venivano sottoposti «a un regime inumano e a violenze gravissime» solo allo scopo di «lucrare sulla condizione di disperazione che li aveva spinti al viaggio e della sua organizzazione».
La loro morte non rappresentava per Matammud «alcuno svantaggio, e anzi veniva da lui utilizzata come monito e pressione sugli altri reclusi», in attesa di ricevere il denaro per pagare il barcone che li avrebbe portati in Europa. Tanto che lasciava i poveri corpi senza vita in mezzo al campo, affinché tutti li vedessero e fungessero da monito.
"SONO IL VOSTRO PADRONE"
L’aguzzino indicava la somma che doveva essere corrisposta dalle loro famiglie tramite il sistema dell’hawala e diceva loro che se entro un certo tempo i soldi non fossero arrivati «li avrebbe picchiati, torturati e alla fine uccisi, poiché lui nel campo poteva fare ciò che voleva». E andava proprio così. I giudici mettono in fila tutte le violenze subite dai profughi, due di loro «picchiati dall’imputato con una spranga di ferro fino a che avevano iniziato a rantolare, e poi ancora fuori dal capannone fino a quando non erano cessate le urla». L’omicidio di due ragazzi «mediante impiccagione» è il più grave dei tredici delitti commessi da Osman Matammud, che ripeteva alle sue vittime: «Anche se mi vedrete in Europa io sarò sempre sopra di voi, io sono il vostro Dio e non potete dire niente». Ido si è salvato e lo descrive così: «Un vero e proprio torturatore. Tutto il giorno violentava donne e picchiava le persone. Era molto fiero di sé, ci diceva sempre: “Io non sono somalo, sono musulmano, sono il vostro padrone”».
PLASTICA SCIOLTA
Nel campo c’era la stanza delle torture dove Matammud bruciava le persone con «il sistema della plastica sciolta: scaldava dei sacchetti di plastica con un accendino e poi lasciava colare la plastica incandescente sulla pelle del malcapitato».
La crudele sorte che attendeva le ragazze era la violenza sessuale. Come ha riferito Abdulqani: «Ismail (così lo chiamavano i prigionieri) in ogni momento della giornata entrava nel capannone e portava via le ragazze che voleva; diceva “alzati” e loro lo seguivano. Poi, mentre erano via, si sentivano le loro urla e quando tornavano nel capannone piangevano». I giudici hanno ritenuto attendibile la testimonianza dei diciassette migranti che hanno riconosciuto Matammud come gestore del campo. «E’ emerso in modo incontrovertibile - scrivono - che Ismail ha concorso a gestire per oltre un anno (almeno dalla fine del gennaio 2015 fino alla fine di maggio 2016) il campo di raccolta di Bani Whalid».
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